È mercoledì, un mercoledì come tanti ma è giunto un punto, scrive Dietmar, in cui molte cose acquistano un senso. Tornando in tram nel tragitto che separa l’ufficio da casa ha notato alla fermata della Trappentreustrasse un ragazzo un po’ goffo con i capelli lunghi, il fisico per nulla atletico e che vestiva in modo sciatto.

Il tram si allontanava e Dietmar, seduto ora davanti al computer, può rivedere la maglietta scura, blu forse e i capelli piuttosto lunghi. Ripensa a tutto questo non solo perché il ragazzo gli ricorda Felix Pocher che ha conosciuto nella cartoleria nella Reichenbach strasse, ma anche perché proprio durante quella fermata ha deciso di scrivere e molte cose prendono ora un senso.

Nella stanza da letto Dietmar sente ora solo il ronzio della ventola del computer e scrive fiducioso per non dimenticare.

Il lavoro di contabile non lo appassiona affatto e nello studio del Dott. Scholz uno dei pensieri che lo ossessiona ogni mercoledì è quello di pulire il bagno. Il mercoledì pensa Dietmar è il giorno in cui devo pulire il bagno. Ma quest’idea che può sembrare estremamente semplice occupa tutta la mattinata di Dietmar sin dalle prime ore del mattino. Così non si concentra per nulla sul suo lavoro ma non è questo che dispiace al povero Dietmar. Quel che davvero gli spiace e che un pensiero così banale ed effimero occupi la sua mente per tutta la mattinata sino alla pausa pranzo. Qui Dietmar si concede di pensare a qualcos’altro, di solito intento a scegliere qualcosa di interessante per il suo palato. Poi però tornando verso l’ufficio ecco che Dietmar riprende a pensare al bagno di casa sua, alla decisione di pulirlo il mercoledì e all’angoscia di non aver niente di meglio a cui pensare.

 

Cosi si trova ora, il povero Dietmar, con le dita sulla tastiera, il bagno da pulire e un racconto da cominciare. Il titolo è già scritto e di questo può compiacersi: racconto per non pulire il bagno. Dietmar sa di non essere uno scrittore o almeno non ha mai saputo di esserlo ma oggi è mercoledì e guardando la porta aperta del bagno di casa sua sente di avere un buona ragione per scrivere.

Pensa a Felix Pocher della cartoleria, al dott. Scholz e al ragazzo della fermata e sente di essere lui, solo lui a legare insieme quelle tre persone.

Nel suo lavoro Dietmar è preciso e apprezzato. Ma si è accorto da molto tempo che la routine a cui è costretto gli rende le giornate poco interessanti e perlopiù lo assale la noia.

Così ogni mercoledì lo assilla il pensiero del bagno e anche questo pensiero non fa che aumentare il suo stato di noia. Di solito si riduce la sera alla luce della lampadina a spruzzare detersivi e risciaquare piastrelle prima di andare a dormire stremato.

Stremato perché davvero è un pensiero terribile che dura tutta la giornata del mercoledì.

 

Dietmar riprende a scrivere convinto di essere il testimone unico del legame di tante persone. Allora guarda dalla finestra e vede il dehor del caffè sotto casa sua. Riesce a distinguere, se si concentra, anche le voci e riconosce Florian un vecchio ubriacone seduto con una Weißbier come lo ha visto tante volte. Ma questa volta è diverso. Dietmar non si capacita di come oggi, un mercoledì qualunque le cose acquistino un senso, questo pensa Dietmar.

Tutto è così strano, la finestra aperta, l’estate qui fuori, il caldo e il ronzio della ventola del computer. Decide di accendersi una sigaretta. Lo ha fatto tante volte soprattutto per noia. Ma questa sera è diverso. Dalla finestra entra una falena attirata dalla luce e Dietrmar respira una boccata con calma. Poi una seconda. E guarda verso il caffè sotto casa e sente confusa la voce di Florian.

E ricomincia a scrivere.

La ragazza con la maglietta verde, ora la ricordo. È passata in bicicletta proprio dove il tram svoltava. Il tram svolta ogni giorno della settimana, pensa Dietmer, ma proprio oggi ho visto quella ragazza e ho notato la sua maglietta verde.

Mentre si trova davanti allo schermo con la connessione accesa succede qualcosa di strano. Una finestra del computer si apre. Qualcuno si è collegato con il computer di Dietmar e gli scrive un messaggio.

Tutto questo può apparire sgradevole a molta gente ma non a Dietmar, non questa sera. Egli non pare per nulla turbato di essere osservato. Piuttosto è curioso del messaggio.

Qualcuno ha letto quanto scritto sino ad ora.

– „Bravo Dietmar, continua così. Quel che hai cominciato a scrivere è degno di essere pubblicato e ci faremo carico di farlo avere alla casa editrice Faber che pubblica racconti importanti.

E Florian sotto casa tua non è soltanto un ubriacone come pare a te. È padre di famiglia e anche nonno, ha lavorato per più di vent’anni in una fabbrica di venici tossiche vicino a Düsseldorf, poi per essersi intossicato ha ricevuto un assegno di invalidità e si è trasferito a Monaco di Baviera dove una clinica specializzata ha provveduto alle sue cure. Vive solo in una casa in affitto composta di sole due stanze, è molto provato dalla malattia e non trova altra ragione di vivere che nell’alcol. A quest’ora ha già bevuto abbastanza da essere ubriaco ma non ha un animo cattivo e regge davvero bene l’alcol. Conserva un rancore profondo per il signor Dobb e la moglie che lo hanno assunto molti anni fa senza rivelargli i rischi cui andava incontro. C’è anche un processo in corso e da allora i signori Dobb non hanno più rivolto la parola a Florian, neppure per salutarlo. È molto bravo a guidare il muletto”.

Dietmar guarda dalla finestra e vede la Weißbier, il posacenere sul tavolino del dehor, la smorfia di Florian e sente la sua voce roca „è molto bravo a guidare il muletto” che strano riflette fra sè e sè.

Non sembra vero che a Florian sia toccata una sorte così difficile. Questo pensa Dietmar.

Non solo. Il messaggio ricevuto prosegue ancora e Dietmar è tutto stupore.

 

Alla fermata della Trappentreustrasse hai incontrato un ragazzo un po’ goffo: ebbene Dietmar quello è Edmund, studia alla Ludwig Maximilian Universität germanistica e teatro. La cosa che occupa di più la sua mente è il teatro d’avanguardia insieme con la musica degli anni sessanta. È un ribelle potresti scrivere ma quel che forse non sai è che ha un’amore spassionato per la zia Therese che proprio oggi quando lo hai visto tu, ha aiutato in giardino nella sua bella casa nel quartiere di Lehel perché fra due giorni festeggia il compleanno.

È uscito un libro di Norbert Frei sul movimento di protesta degli anni sessanta ed Edmund lo ha divorato. Sua zia Therese è una femminista convinta e tiene viva la memoria di quegli anni. Edmund, non ancora ventenne, sente di essere nato nella decade sbagliata, il suo abbigliamento andava bene negli anni sessanta ora non più, ma questo i suoi coetanei non lo possono capire e lui non vuole certo barattare il teatro d’avanguardia con una T-Shirt Lacoste e la vita Schickimicki di Schwabing. A lui si addicono piuttosto alcuni locali che non hanno perso, crede Edmund, l’anima vera del ’68 e della rivolta giovanile. Che poi oggi nel guardare un curriculum si faccia attenzione agli hobby e che fra i suoi hobby stia scritto teatro e musica alternativa, come detto, non lo turba affatto.

 

Zia Therese non si è sposata e vive in una casa con giardino nella Schulstrasse, porta i capelli lunghi e si compiace di fare i complimenti a giovani trentenni seduti a mangiare al ristorante pizzeria Da Mario sotto casa sua. Si compiace di tutto ciò perché non di rado i complimenti sono contraccambiati e quando si porta a letto un trentenne innamorato dei suoi vestiti e del suo corpo racconta tutto questo a Edmund perché anche lui sappia che a quarantanni non è finita la vita di una donna. Una donna può ancora sperare di essere desiderata, non è fatta solo per sfornare marmocchi e farsi strofinare dal marito due volte al mese mentre lui pensa alla praticante dell’ufficio vendita.

 

 

Edmund non sa tutto questo ma adora zia Therese e a suo modo capisce.

E per esprimere l’amore per la zia non si taglia i capelli, veste trasandato e sogna i movimenti di quarantanni prima.

È incredibile che dietro quella T-Shirt blu alla fermata della Trappenteuerstrasse del tram 19 ci fosse tutto ciò.

Ma che bello scrivere al mio computer, pensa Dietmar.

– „Si sta facendo tardi Dietmar, è ora che tu vada a dormire”.

Allora spegne il computer e va a lavarsi. Si avvicina al letto, si sveste e indossa il pigiama, perché Dietmar dorme sempre col pigiama; spegne la luce e sogna ad occhi aperti.

Sogna di uscire l’indomani per il lavoro che ora ha tutto un altro peso, ora non sembra più noioso, molto sembra acquistare un senso.

Guarda un poco la luce del lampione della strada, avvolge compiaciuto il cuscino con le due braccia, strizza gli occhi e si addormenta.

 

È cominciato giovedì.

 

La mattina si svolge come ogni giovedì, suona la sveglia una prima volta e poi una seconda, infine una terza volta: con una certa fatica Dietmar capisce che ha esaurito le tre possibilità del tasto snoozer della sua sveglia elettrica e si dirige in bagno. Il primo pensiero è rivolto al racconto di ieri e a ricordarlo, Dietmar sente di non aver chiaro se si tratti di un sogno, soltanto di un sogno. Ma poi si veste e durante i movimenti meccanici e privi di interesse con le calze e i pantaloni si convince che le cose abbiano ieri acquistato un senso nuovo e si dirige verso il computer. Lo accende e il tempo in cui Windows si carica lo rende insofferente allora accende la stampante perché tutto si svolga in modo rapido e invece tutto procede piano piano, questo pensa Dietmar, sullo schermo sono comparse tutte le icone e così riesce ad aprire Word e a rileggere quanto scritto.

Non è un sogno. Quel che è successo ieri non è un sogno. Decide di stampare in fretta per poi andare sotto casa nella Konditorei a fare colazione come tutte le mattine.

 

La signora Caroline trova Dietmar piuttosto evanescente e si informa della sua salute. Lui la rassicura e la celebra con un pensiero nuovo. I biondi capelli della signora Caroline rivelano a Dietmar una bellezza che non aveva sino ad ora notato. Radio Arabella trasmette musica degli Abba ed entra una coppia con un bambino seduto nel passeggino. Che strana sensazione questa mattina. Ascolto la radio e guardo con interesse un bambino assonnato dentro ad un passeggino e non mi importa di essere un contabile che si appresta ad andare al lavoro con il tram che sarà affollato come ogni giovedì. Questo pensa Dietmar.

Nelle fermate che separano la casa di Dietmar dall’ufficio ritiene che oggi potrebbe chiedere una mezza giornata libera e l’idea solletica a tal punto la sua fantasia che prende ad osservare una ragazza bionda dagli occhi chiari poco distante da lui. Ha il mento pronunciato ma questo non la rende meno attraente, senonchè Dietmar nota sul lato destro della guancia un piercing e questo le dona sicuro una grazia, peccato gli occhiali da sole sul capo. In piedi davanti a lei deve essere il suo ragazzo perché biascicano parole sottovoce e Dietmar non riesce a fare a meno di pensarla nuda su un letto e per aiutarsi in questo dolce pensiero le osserva le gambe a salire sino alle cosce dove terminano i pantaloncini gialli corti.

Per amore di simmetria e per purificare il suo pensiero Dietmar rivolge altrove lo sguardo e la sua fantasia si posa su una signora piuttosto anziana seduta di fronte a lui. Lo colpiscono gli orecchini che penzolano nel lobo quasi allungato dal peso dei due anelli e gli ritorna in mente la nonna Adele che portava orecchini di quel tipo e nella sua memoria le due vecchiette hanno molto in comune, se non altro le profonde rughe sul viso.

Sì, oggi è la giornata giusta per tornare a casa a pranzo, mangiare presso la signora Caroline che benchè riservata noterà la cosa; inventare qualche storia e tornare al computer a scrivere.

Il lavoro si svolge in modo meccanico, con dei numeri che a Dietmar erano parsi sino ad ora del tutto indifferenti, ma oggi, giovedì, senza sforzo riesce ad immaginare dietro le cifre proprietà e spese detratte.

In particolare oggi ha una dichiarazione dei redditi piuttosto complicata di una coppia di dentisti e piano piano si costruisce nella mente di Dietmar lo studio con le sue quattro stanze più la sala d’aspetto comune per la dottoressa Felder e tre stanze invece in affitto al suo collega il dottor Schiller. Una signora siede paziente con un certo dolore alla parte superiore destra della bocca perché i lavori preparatori per un’impiantologia le sono stati consigliati vivamente dal suo dentista il dottor Tauber che però non ha le attrezzature necessarie alle cure e vista la diagnosi di una piorrea è venuta d’urgenza a farsi operare dalla dottoressa Felder.

Donna molto decisa, la dottoressa ha raggiunto con sorprendente rapidità una discreta fama e ora divide lo studio in una bellissima palazzina degli anni ’30 miracolamente rimasta intatta dopo i bombardamenti di Monaco che furono perpetuati dalla RAF e dalla Air Force Americana. L’entrata è davvero maestosa ma quel che più piace a Dietmar mentre sfoglia i conti e le dichiarazioni dei redditi è il fiume Isar che si affaccia dalle finestre del pian terreno. L’arredamento scarno e le pareti alte e bianche sono adornate da qualche riproduzione espressionista e ogni stanza ha una poesia scritta a mano con una grafia deliziosa. Sono poesie di Hermann Hesse, di Heinrich Heine e anche di Goethe e tutto questo rende lo studio medico gradevole e alleggerisce il fasto dell’edificio, questo pensa Dietmar.

Il dottor Scholz ha accordato la mezza giornata di libertà e Dietmar esce sollevato dai pensieri della povera signora che ora sarà sotto i ferri della dottoressa Felder, cammina verso la fermata della metropolitana che è più veloce del tram ma ahimè occorre camminare a piedi un bel quarto d’ora. Tuttavia immerso com’è in tanti pensieri ritiene quella passeggiata davvero interessante e salutare, per nulla noiosa.

 

Alla fermata Fraunhofer Strasse Dietmar nota su cartelli con sfondo rosso l’immagine di una sigaretta accesa, stilizzata con un riga orizzontale che vieta il fumo, e poi seduto sui sedili marroni dell’U-Bahn può rivedere la stessa sigaretta stilizzata ma questa volta barrata da un croce rossa.

Sente un sottofondo di musica perché il ragazzo con gli occhiali e la maglietta a righe ha le cuffie ma il volume dell’Ipod molto alto: quel fastidio che bisogna sopportare nella metropolitana. Fra questi otto sedili ascoltiamo tutti musica rap nel buio dei tunnel tra una fermata e l’altra.

Dietmar è convinto che anche questo abbia un senso, occorre solo trovarlo; questo pensa Dietmar.

 

Due signore nel metrò discutono in modo che a Dietmar pare divertente.

– „Potrebbe essere Parigi, se chiudo gli occhi il rumore è uguale alla ROR”, dice una.

– „Monaco non ha niente da invidiare a Parigi!”

– „Tu scherzi mia cara, dove lo metti lo charme? A Parigi è passata la storia.”

– „La storia passa dappertutto anche nel piccolo passino di Tann dove diceva il nonno ci sono le ragazze più belle della Baviera.”

Dietmar non guarda neppure come sono vestite le due signore, non pensa più a niente e arriva finalmente a spingere la maniglia della porta della U-Bahn e si avvia a piedi verso casa.

Poco prima di arrivare al McDonald dell’angolo pensa a lungo se sia il caso di svoltare indifferente e camminare ancora dieci minuti verso casa o se invece fermarsi e concedersi un sorbetto con il caramello caldo. Proprio mentre pensa al caramello caldo decide di entrare perché -pensa Dietmar- uno scrittore ha bisogno di zuccheri per far funzionare il cervello. Se prima di mercoledì si concedeva il piacere di un gelato con caramello con qualche riserva, pensando al colesterolo, ora nella vesti di contabile con il gusto per il racconto tutto prende un senso nuovo. La cassiera è robusta, è quasi sempre la stessa a quell’ora della sera e se fino ad ora non ci ha fatto caso ecco che ne osserva i rapidi movimenti. Ha un cappellino con il logo McDonalds, la maglietta con il logo McDonald e una targetta con il nome: Claudia Kralle.

Le persone hanno un volto e un nome, ma quanto poco importante era tutto questo prima d’ora.

 

Ormai ci siamo – pensa Dietmar- e apre la porta di casa, sale le scale alquanto in fretta e prima di raggiungere il pianerottolo del secondo piano ha già in mano la chiave giusta impugnata senza riserve. La luce è già accesa e ora presto il computer.

Il computer che si accende è una delle attese che distruggono la pazienza di Dietmar –questo è chiaro e allora accende la macchinetta del caffè e scommette su quale dei due apparecchi sia per primo pronto all’uso.

Il computer ha vinto, ma manca la connessione. Pochi istanti, un clic e intanto sente il caffè uscire. Una patta, diciamo che si tratta di un pareggio.

Il vantaggio è che ora può sorseggiare caffè caldo molto zuccherato (proprio ora noi scrittori abbiamo bisogno del massimo delle energie) e si mette a scrivere.

Di nuovo a premere tasti e vedere le righe sul computer tutte ordinate in Times New Roman quando si riapre una finestra.

 

– „E Verena te la ricordi?”

– „Se mi ricordo di Verena?” Che domanda bizzarra, pensa Dietmar.

– „È proprio la ragazza con la maglietta verde che hai visto in bici ieri, dove svoltava il tram.”- „Lavorava quattro anni fa per una compagnia petrolifera di Amburgo che l’ha spedita a Genova un anno e poi a Monaco: qui ha conosciuto Paolo, un italiano in viaggio di studio pagato dallo studio Avvocati Gallo e Santini Associati di Brescia. Gli avvocati non speravano certo di sistemare con Paolo il problema della cause che richiedevano il tedesco, primo perché non avevano cause con tedeschi e secondo perché Paolo era stato raccomandato dal proprietario dello stabile di Via 20 Settembre e a Brescia non è poi tanto facile avere una un ufficio di sei stanze a due passi dal palazzo di giustizia di Via Gambara. Con Paolo Verena condivideva poemriggi afosi tra l’Englischer Garten e il lungo fiume Isar a volte a piedi altre volte in bicicletta.

Come è cambiata non trovi Dietmar?

Ti ricordi di come si rise quando Paolo per fare il gentile le chiese a quale fermata voleva scendere e lei rispose Volentieri.

Che risate Dietmar: Paolo non osava chiedere oltre ma non capiva fino a che punto Verena fosse sadica tanto rideva, al chè lei rispose che la fermata si chiama Volentieri.

Lei lo mette in imbarazzo quando vanno al fiume e si spoglia per prendere il sole. Non lontano, le dice lei, ci sono gruppi di nudisti proprio sull’Isar: – „non sai cos’è la FKK? La Freikörperkultur, ma Paolo non conosci proprio niente della Germania!“

Paolo telefona di tanto in tanto allo studio Gallo e Santini Associati per rassicurare che lo studio del tedesco migliora ma ha bisogno ancora di tempo, ripete. Così facendo ha prolungato di qualche mese la sua partenza. Non che speri di arrivare alle spiaggie della FKK dell’Isar ma si vergogna di quanto poco ancora conosca il tedesco e legge i titoli del giornale TZ per distogliere lo sguardo da Verena che non osa corteggiare senza l’iniziativa di lei stessa.

Dietmar è contento di Verena e Paolo ma non può fare a meno di pensare alla sua solitudine e come fa ormai da anni sintonizza la radio su Radio Arabella Music Sender. Ora non sente più chiaro il ronzio della ventola del computer ma le note della radio.

 

Che Parigi non abbia niente da invidiare a Monaco gli pare una frase insensata anche perché quando evade, Dietmar, raggiunge col pensiero proprio Parigi. E non è tanto la cattedrale di Notre Dame o gli Champs Élysées che si ricorda bene, e neppure la Tour Eiffel o il museo del Louvre. No, Dietmar pensa piuttosto a una vacanza di tanti anni fa, appena finito l’Abitur con i compagni di scuola. Quel viaggio col bus e Paula della XIII C è decisamente il più bello da ricordare. E Dietmar ricomincia a scrivere.

Avevo l’Abitur in tasca e credevo di avere con quello il mio futuro nelle mani. Ero dotato per il francese e il mio sogno era un insieme di decine di sogni: guida turistica, giornalista, traduttore e così via.

Tutti sogni che si pensano prima della malattia- riflette Dietmar.

Perché allora non sapevo che si può soffrire parecchio e non sapevo che la malattia ti tiene ancorato alla terra, ti consuma i sogni fino a rattrappirli.

Io e Paula giravamo insieme i vicoli di Parigi alla ricerca dei luoghi di Simenon. Un clochard, una prostituta, una pipa in vetrina o una piccola trattoria con la veranda: quelle erano le nostre sere. Tornavamo all’hotel vicino a Gare de Lyon e ci trovavamo nella stessa stanza a discutere dei gialli che avevamo letto e quando notavamo un particolare come una sigaretta accesa da un tizio nel bancone a noi di fronte dicevamo: questo è l’inizio del nostro Simenon e fu come innamorarsi.

Non fu amore facile ma fu felice. Fu prima della malattia. Poco prima.

 

– „Dietmar non rammaricarti a pensare a Paula e alla notte in cui si concedette!”

Dopo ci fu la malattia.

– „Paula ora ha un figlio che si chiama Thimo, lavora in proprio: sai, è consulente. Oggi vanno di moda i consulenti anche in Germania. Organizzano Team, parlano di strategia e lavorano ai progetti. Guadagna bene sai e si può permettere l’alloggio di Dhürer Strasse. Vuole bene a suo figlio come voleva bene a te, senza trasporto. Nelle emozioni non si lascia andare troppo perché illanguidire è umano, troppo umano, pensa Paula.”

Dietmar è turbato e non vuole ricordare.

Ora ho proprio bisogno di una sigaretta, perché anche noi scrittori siamo turbati e una sigaretta può certamente consolare, questo pensa Dietmar.

È strano come io sia il crocevia di tutti queste persone. La dottoressa Felder con le sue spese da detrarre, Paula con il suo bambino Thimo nel passeggino, la cassiera Claudia Kralle e il logo McDonalds. Tutto ciò è molto strano.

Nel frigo non c’è niente che possa compensare l’appetito di Dietmar così decide di uscire, questa volta in direzione Rosenheimer Platz. Ormai i viaggi nei mezzi pubblici sono così ricchi di incontri che non ne posso fare a meno, pensa Dietmar.

 

Tuttavia sceglie improvvisamente di scendere a Marienplatz. Decide di attraversare la piazza e godersi il bel tempo. Si dirige verso la fermata del 19 passando per la Theatinestrasse. Appena lasciata Marienplatz sente, dopo aver preso un panino con Leberkäse, un certo brusio e nota alcuni poliziotti, camminando sente che vengono scandite delle parole ma non le riconosce. Dietmar non è spaventato, è chiaro, molti turisti circolano per il centro, è solo curioso. Ora si fanno più chiare anche le parole con ritmi sempre uguali. Dietmar riesce a distinguere la voce corale di una trentina di persone, perlopiù arginati da un cordone di polizia che protegge un banchetto del NDP il Nationaldemokratische Partei Deutschland con due membri del partito che propongono materiale informativo.

Dietmar è confuso. „Es gibt kein Recht für Nazi-Propaganda, es gibt kein Recht für Nazi-Propaganda.”

Tutto sembra sotto controllo quasi ordinario, Dietmar però non può fare a meno di percepire un certo disagio.

„È cominciato tutto così con qualche gruppo di manifestanti che urla e scandisce slogan?”

„Sono quattro giovani idealisti che sbraitano convinti perché non ancora usciti dall’adolescenza? ”

„Sono del tutto inutili o il male cresce pian piano e occorre fermarlo sul nascere, magari con degli slogan? ”

„È cominciato proprio in questa piazza di Monaco?”

Dietmar è ora davvero inquieto.

„È cominciato tutto così?” Si domanda di nuovo.

„Questo peso che ci portiamo addosso del tutto impotenti, questa colpa senza peccato, solo per essere nati in questo fuso orario e in questa decade?”

– „O siamo colpevoli anche noi, anche adesso?”

 

Non avevo fatto caso al colore di Monaco a quest’ora ma questa luce parla- pensa Dietmar.

Ho bisogno di scrivere. Sento che le cose acquistano un senso. Voglio ritornare al computer.

Una signora afferra il suo barboncino e gli rimette il guinzaglio.

La seguo con gli occhi mentre arriva il tram e sento ancora in lontananza un confuso coro: „es gibt kein Recht für Nazi-Propaganda, es gibt kein Recht für Nazi-Propaganda.”

Spostarmi da un luogo all’altro è sempre stato il mio sogno e cambiando zona si cambia anche il pensiero. Dietmar è come inebriato e stupito che quattro fermate successive alla Theatinerstrasse tutto sia diverso.

La distanza fisica è anche una distanza mentale.

E il tram viaggia.

Una ragazza con una maglietta viola e i jeans sta leggendo un libro. Dietmar non può fare a meno di notarla. Ha le scarpe da tennis viola e una borsa a tracolla. Un braccialetto con piccoli pendagli –avranno pure un senso. I capelli biondi ma Dietmar non riesce a distinguere il libro, tuttavia deve essere in tedesco. Dietmar vaga con la mente.

Non sembra vero che sono già davanti al computer, che ho lo schermo acceso, che siano già passate le sette fermate fino a casa e i passi a piedi, le scale e soprattutto il noiosissimo caricamento di Windows.

Ecco finalmente si apre la finestra. Sono davanti al computer.

Ho aspettato solo questo, voglio solo leggere quel che è scritto in questa finestra –pensa Dietmar.

 

– „Bravo Dietmar accendi la radio. Accendi radio Arabella. Sei tu nella tua stanza con il computer acceso a scrivere. Sei tu Dietmar. Sei tu davanti a Sara che legge un libro con la maglietta viola. Vi siete guardati lo ricordi? Ebbene Dietmar, Sara sta leggendo ancora il libro che aveva in mano. È salita sulla metropolitana S-6 per Starnbergersee e sta tornando a casa. Sta leggendo il libro in tedesco. Sta leggendo il tuo libro. Sono le righe che hai scritto tu, caro Dietmar, e ora non lontano dal lago di Starnberger è esterefatta perché ricorda il tuo volto e può intuire che a scrivere sei proprio tu. Ha letto di Edmund e di zia Therese. Ha letto di Paolo e Verena e piano piano è arrivata a leggere di se stessa. Non dubita che parli di lei, della sua maglietta viola e delle scarpe da ginnastica viola. Del braccialetto.

 „Non può che essere il mio.

Non posso che essere io di fronte a te, mio caro scrittore. Ho letto di come era noiosa la tua vita di contabile.

E come non restare attoniti di vedere proprio te Dietmar davanti al mio sedile. Io che ero concentrata a leggere e più leggevo, più mi immedesimavo in te, più scoprivo il tuo mondo.

E in quel mondo ci sono anch’io.

Dietmar, sono qui. Ho quasi raggiunto Starnberger See. Lavoro nella panetteria dell’U-Bahn della stazione centrale e niente è più bello che essere nel tuo racconto.

Forse non sai che ho una statua cinese in camera, di fronte al letto. Un Budda che mi tiene compagnia prima di andare a dormire. I mobili li ho comprati da Ikea un anno fa e l’armadio di fronte al letto è bianco e ha un vano centrale. Proprio dentro quel vano, come in una nicchia ho messo il Budda.

Quando viene sera e mi ritiro in camera accendo la lampada sul comodino e la radio. Guardo il Budda ed è come pregare.

– „Perché?”

– „Perché mi domandi?”

Perché ho conosciuto Valentin due anni fa.

Lui cercava il suo centro.

– „Lo sai tutto questo Dietmar?”

„Lo sai che Valentin l’ho conosciuto già malato ma non mi disse niente.

Si mostrava gentile e ordinava da me, sempre da me due Vanilleschnecke.

Finchè un giorno non gli chiesi dove avrebbe voluto vivere.

Non si chiede una cosa del genere a un cliente.

Non è una domanda consueta. Ma Valentin non è una persona qualunque e mi ha detto che ha viaggiato spesso prima della malattia e poi ha detto Tibet. Capisci Dietmar. Ha detto Tibet. E abbiamo parlato per due interi pomeriggi nel lago di Langwieder seduti sulla sponda. Mi ha parlato di Budda e delle quattro prove della vita. Io non riuscivo a capire che era malato.

Poi ha detto che la prova più difficile lo aspetta proprio adesso.

Non so neppure bene che lavoro facesse. So che viaggiava. Viaggiava molto per lavoro.

L’ho amato. L’ho amato elegante e raffinato. Parla credo molte lingue ma l’ho amato mentre taceva. E mi ha regalato un Budda che ho in camera con me. Perché Dietmar scrivere come fai tu è importante ma io non sarei in grado di raccontarmi. Non riuscirei a scrivere un libro. E ringrazio che ci sei tu a scrivere. Ditmar ti prego continua a scrivere!”

 

Dietmar era piuttosto stupito.

La ragazza con la maglietta viola si chiama Sara. Lavora in una panetteria della metropolitana U-2. Vive a Starnberger See.

E non sapevo niente sino ad ora.

Tutto è così nuovo. Tutto ha preso senso d’improvviso, mentre scrivo.

 

Radio Arabella trasmette le Hit. Musiche che hanno fatto la storia. Come Parigi.

La storia passa dappertutto disse la signora bavarese.

La storia passa anche in questa stanza.

È tardo pomeriggio di giovedì.

Dietmar si accende una sigaretta e guarda il dehor della Konditorei e rivede Florian. Gli pare quasi di sentire l’odore di vernice della fabbrica dove ha lavorato per tanti anni. E gli pare di sentire il gusto della Weißbier alla bocca.

A Dietmar pare di sorseggiare con lui.

– „Florian, che tu possa dimenticare il gusto di vernice che hai nei polmoni”– pensa.

 

Seduto vicino al letto Dietmar si sente piuttosto stanco ma non vuole andare a dormire.

Non vuole spegnere la radio e neppure il computer.

Mi capitava anche da ragazzo di restare con la radio accesa e di non voler spegnerla. Certi apparecchi ci fanno compagnia anche se non li notiamo. Li notiamo però quando sono spenti.

E io sento la ventola del computer. Radio Arabella, sono qui vicino al letto…

 

– „Mi hanno salvato queste gambe”-dice un uomo magro con la barba da fare e un completo bianco.

– „Mi hanno salvato queste gambe che mi han portato a casa.”

Un tipo guarda dalla finestra e non dice niente. Anche lui veste di bianco e Dietmar allora si guarda i vestiti: pantaloni di tela e un camice bianco.

– „Ma dove sono?”

– „Da quanto tempo sono qui?”

Nessuno risponde ma Dietmar si accorge che ha solo pensato queste domande.

Si avvicina alla finestra e chiede scusa all’uomo appoggiato al davanzale che guarda il cielo.

– „Viene qualcuno qui?”

– „Vorrei sapere dove sono?”

– „Domani ti spostano di nuovo”-risponde quello sottovoce.

– „Domani ti mettono nella stanza da solo sotto osservazione.”

– „Qui passano solo per dare i medicamenti ma fra due ore.”

– „E portano da mangiare.”

– „Oggi è venerdì e se abbiamo fortuna ci saranno filetti di merluzzo.”

 

– „Ma da quanto tempo sono qui?”

– „E cosa ho fatto?”

– „Non so mio caro.”

– „Io non so niente.”

– „Ma quando uscirò?”

– „Domani ti spostano nella stanza sotto osservazione.”

– „Mio Dio- pensa Dietmar- cosa ho fatto?”

– „E adesso devo aspettare. Il tempo è maledettamente insopportabile.”

– „E poi aspettare cosa?”

– „Sono malato?”

 

Dietmar vede una radio posta sopra un mobiletto nell’angolo.

Devo capire che giorno è.

Devo ascoltare quella radio.

E se prima non ci aveva fatto caso ora escono le note di una musica.

È Bruce Springsteen.

Lo sento ma il volume è molto basso.

Se solo potessi alzare il volume.

Sì ce la faccio. Mi alzo. Muovo le gambe.

Voglio alzare il volume della radio.

Voglio ascoltare Bruce Springsteen. Nebraska.

 

„Radio Arabella Music Sender” le previsioni del tempo. Oggi cielo limpido nella parte Nord della Baviera, nuvoloso in Oberbayern con qualche…”

 

– „Dio mio ho dormito. Ho solo dormito. Era solo un sogno.”

E si accorge del computer acceso, vede la finestra e i tavolini del dehor legati da una catena di ferro.

 

Adesso è ora di mettersi il pigiama, perché Ditmar dorme tutto l’anno con il pigiama.

Si dirige in bagno per lavarsi i denti.

Meglio sarebbe farsi la doccia. Allora come spesso accade decide di preparare una lavatrice in modo che durante la doccia la lavatrice sia in funzione.

La radio continua a suonare e Dietmar si accorge di quanto importanti siano la lavatrice e la radio e Parigi. Psicologicamente lavorano per lui. Il pensiero che più lo rilassa quando pensa stressato al bagno da pulire o ai panni da lavare è che qualche motore si muova. Più ancora è importante che ad avviare il motore sia stato proprio lui cosicchè mentre sente il rumore del motore può dedicarsi alle attività che lo annoiano.

Che noia nella mia vita. Che noia sino ad ora.

Solo ora le cose prendono un senso.

 

E Sara legge quel che scrivo.

Io scrivo, dunque sono- pensa Dietmar ormai sotto la doccia calda.

Il tempo di asciugarsi e decide di ritornare a scrivere. Non prima però di aver acceso la piastra sotto un pentolino. Mentre vado al computer si scalda l’acqua.

E mentre io sto a scrivere nella fermata di Moosach stanno scavando gli ultimi tunnel della prossima fermata dell’U-Bahn. La città è sventrata e le strade interrotte. Ma qualcosa muove.

Mentre io preparo la cena, ovvero mentre l’acqua raggiunge la temperatura gli operai di Pasing hanno raccolto i loro strumenti e si preparano a tornare a casa. Intanto il secondo piano dell’Einkaufszentrum è ormai pronto e domani riprenderanno i lavori.

Nella Agnes Bernauer Strasse hanno già ricoperto con il catrame la carreggiata destra della via e predisposto la nuova pista ciclabile. La città si muove. E Dietmar prova un certo sollievo perché sembra partecipare a tutti questi lavori.

Il progresso va avanti.

In questo momento negli Stati Uniti qualche ricercatore di medicina sta cercando di isolare il virus pericolosissimo scoperto due anni fa.

E ci riuscirà.

Il mondo va avanti.

Poi per un attimo Dietmar pensa ai virus che sono sempre più resistenti. Che mutano. Un senso di sconforto raggiunge Dietmar davanti al computer proprio mentre era entusiasta del progresso e dei lavori stradali della Agnes Bernauer Strasse.

 

E poi ci sono le guerre. E le guerre distruggono tutto. Cancellano le piste ciclabili e il catrame nuovo. Cominciano con dei banchetti come nella Theatienstrasse.

Tutto questo è strano, pensa Dietmar. Tutto questo è sconfortante. Domani è venerdì e non c’è altro rimedio che scrivere.

I tasti si muovono leggeri sotto le mie dita. Io un contabile qualunque che tutte queste cose sa della gente che incontra e che osserva.

E niente è più dolce che sapere di essere.

Siamo tutti dentro la vita ma non ne abbiamo coscienza, questo è il problema.

Io sino ad ora non avevo compreso tutto questo. Non sapevo di essere il crocevia di tante persone. Che idea felice quella di scrivere.

Ma ora la luce, la radio e il computer, devo spegnere la luce e la radio e il computer e dormire. Sì, ora devo proprio dormire.

 

Comincia venerdì.

 

La colazione nella Konditorei è veloce perché Dietmar ha dieci minuti di ritardo. Tuttavia la signora Caroline è deliziosa e prende due croissant da portare via insieme ad una Quarktasche tenuti da parte apposta per Dietmar..

Il tram è affollato come sempre: meglio c’è molto da scrivere.

Alla seconda fermata salgono i controllori.

Che bello essere controllati! Pensa Dietmar. Sapere di essere in regola qui, dove tutto è regola. Avere la soddisfazione di esibire il biglietto mensile e vedere qualcuno cadere nella rete.

Non per malvolenza. Anzi forse proprio per quella: perché il passeggero che viene sorpreso senza biglietto rende i paganti compiacenti e orgogliosi di aver pagato.

Una mosca si posa sui pantaloni di Dietmar che non esita a ucciderla per poi provare un piccolo risentimento.

Per fortuna entra un passeggino con una bimbetta nascosta che pare tranquilla in fondo al blu della carrozzina e dei vestiti.

Che bello esser bambini. Ma più ancora è bello saper di esserlo stati. Perché appunto il problema dei bambini è che non sanno di essere tali.

Non scrivono.

Sono dentro la vita e non sanno di esserlo.

Ma crescono, pensa Dietmar. Diventano grandi a forza di omogenizzati e latte. E i genitori comprano loro dei giochi. Piano piano dei libri illustrati. E poi rinnovano la stanza con mobili nuovi e scarpe grosse adatte ai cresciuti piedi.

E poi qualche poster nuovo.

E il primo videogioco per il quale si litigherà.

Contribuiscono alla crescita del paese.

E l’economia va avanti.

A Moosach in questo momento una trivella sta bucando per la lunghezza di due metri il manto stradale e giù giù sino in fondo.

Presto, presto, pensa Dietmar, la fermata deve essere ultimata poco dopo Natale.

E nuovi clienti della MVV compreranno i biglietti.

E l’economia va avanti, via verso il progresso.

 

Questa affannosa fiducia nel progresso se da un lato riempiva Dietmar di energia nuova, lasciava tuttavia un grande senso di vuoto proprio quando il progresso raggiungeva l’apoteosi di ponti giganteschi e grattacieli, linee sotterranea della metropolitana e collegamenti rapidi con Parigi.

 

Un uomo si siede di schiena poco oltre, magro e distinto. I pochi capelli scuri spiccano in mezzo a bellissimi capelli bianchi che tradiscono l’età. Friedrich ha 61 anni. È direttore di una scuola statale di musica. La scuola Schubert di Neuperlach. Prossimo alla pensione non pensa per nulla di ritirarsi dal mondo della musica per cui ha una passione smisurata. Già ai tempi del Gymmnasium aveva chiaro che il pianoforte e il violino erano le passioni che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Suona spesso nella casa di sua madre Helene che ha ereditato ormai quattro anni fa. Gli costa un grande sforzo tenere puliti i tre piani della casa ma non vuole farsi aiutare da nessuno.

La moglie da cui si è separato sette anni fa la vede regolarmente e ritiene che il rapporto sia in qualche modo recuperato dopo l’episodio con Anne.

Anne è una studentessa con delle doti eccezionali. Suonando il violino con il suo maestro si è fatta notare anche dal direttore, Friedrich appunto.

La musica vibra nella pelle sino ad entrare nelle vene e al cuore. E qualcuno la può apprezzare. Non tutti, ma qualcuno sì.

Accompagnata al pianoforte dalle dita esperte di Friedrich, Anne ha piano piano conquistato la stima di molti studenti, del maestro il Prof. Patthard e di Friedrich. Ascoltarla era davvero un incanto.

Mozart le riusciva così naturale che Friedrich non potè fare a meno di trascorrere diverse ore con lei.

 

Anne non sapeva che una studentessa di ventidue anni può inquietare il direttore della scuola Schubert di Neuperlach mentre suona Mozart.

Friedrich non sapeva niente neppure lui. O forse sapevano entrambi.

Ma Anne non avrebbe mai pensato di mettere in discussione il matrimonio all’apparenza solido con Ester e di incrinare il rapporto con le due figlie Sara e Sophie.

Friedrich non sapeva tutto questo ma ha impiegato diversi anni per ritornare ad essere un uomo emozionalmente indipendente e recuperare il rapporto con Ester.

Certo ora non vivono più insieme ma si vedono settimanalmente e anche Sara e Sophie sono contente di presentare i loro rispettivi fidanzati tedeschi al padre Friedrich. Uno nell’esercito e l’altro in marina.

 

Ma Friedrich non è sul tram per andare al lavoro. Oggi non lavora, anzi non lavora ormai da due anni. Dopo il ricovero nella clinica di Tutzing che è durato otto mesi è a riposo per un esaurimento psichico.

Non ci sono elementi che fanno pensare a un uomo in cura.

Dietmar lo guarda di nuovo e senza farsi notare supera i sedili blu dove Friedrich è seduto e si volta. Il direttore della scuola Schubert di Neuperlach ha dei baffi molto folti che lo rendono simpatico.

È davvero molto magro.

In casa, nella casa che fu dei suoi genitori Helene e Jens ha un armadio piuttosto ordinato e nel lato sinistro verso la finestra ci sono ancora due paia di jeans che comprò quando aveva diciannove anni. Sono entrambi rossi.

Il suo corpo non è cambiato. I capelli sì, si sono sfoltiti e son divenuti bianchi. Ci sono molti dischi e libri di musica. Una storia del melodramma in inglese con una dedica: „A Friedrich che non smetta di suonare, la tua Lotti.”

Friedrich ha un carattere affabile che non traspare perché un orgoglio ed un pudore verso la gente nascondono la sua dolcezza.

È considerato un direttore all’altezza della scuola Schubert di Neuperlach e non si conoscono i motivi della sua lunga assenza, si vocifera qualcosa ma perlopiù si mantiene un certo riserbo per rispetto al suo aspetto e al suo incedere distinto.

Il tram si ferma alla stazione e Dietmar scende. Gli pare di sentire il violino di Anne che suona e pensa a Friedrich al pianoforte.

Io non avevo mai saputo che tutto questo è accaduto e accade a Monaco.

Io non credevo si potesse tanto amare una città. Questo pensa Dietmar.

 

A Stachus stanno lavorando per rinnovare la stazione. Ci sono diversi operai e container pieni di macerie.

Per fortuna i lavori vanno avanti, pensa Dietmar sollevato, intanto si avvia alla fermata dell’U-Bahn.

La fermata gli sembra familiare. C’è una panetteria Müller e decide di guardare se trova per caso Sara. Forse fa il turno del mattino. Forse è già in piedi da più di un’ora, si è pulita i denti e si è vestita nella stanza della sua casa di Starnberger. Ha preso una maglietta e una camicia azzurra, un paio di pantaloni neri e richiuso l’armadio ha guardato il Budda, lo ha salutato con un cenno come salutasse Valentin ed è arrivata alla metropolitana.

Qui comodamente seduta vicino al finestrino ha preso le cuffie dell’Ipod e ha schiacciato play. Si è assentata per diverse fermate e non ha pensato più ad altro che alla musica. In questa forma di raccoglimento si è preparata per il turno di lavoro nella panetteria Müller.

 

Ora è qui e la vedo. È proprio lei, pensa Dietmar, nella borsetta ha il mio libro e legge, legge di me, di lei e di Felix Pochar.

Ma Dietmar non osa avvicinarsi, inoltre parecchie persone sono in coda e aspettano discrete.

Meglio che anch’io resti discreto.

Quattro fermate con l’U-Bahn e raggiuge l’ufficio.

In ufficio tutto è come l’ho lasciato ieri. La scrivania, i libri contabili sono rimasti dove erano ieri. Ecco qui ci sono i dati della dottoressa Felder che ora è in vacanza negli Stati Uniti. Ha scelto per le sue vacanze gli Stati Uniti ormai da quattro anni, lascia lo studio al suo collega il dott. Schiller e trascina il suo compagno negli States.

Ma quel che mi interessa sono le poesie scritte sui muri.

Che bella grafia, pensa Dietmar.

Questo è Heinrich Heine.

 

Ein Traum, gar seltsam schauerlich

Ergötzte und erschreckte mich.

Noch schweb mir von manch grausig Bild,

Und in dem Herzen wogt es wild.

 

Dietmar non può fare a meno di pensare al suo sogno.

Un sogno terribile.

Ma Dietmar non ha tempo di sognare. Ci sono le fatture da registrare. Eppure proprio l’idea di avere otto ore davanti a sè, otto ore di conti e dichiarazioni dei redditi lo riporta a sognare. Dietmar vorrebbe fumare una sigaretta, ma è appena entrato in ufficio e lasciare l’ufficio per fumare sarebbe ora troppo presto. Ecco di nuovo un divieto, una costrizione. Proprio il divieto rende impellente a Dietmar la voglia di fumare.

In ufficio è consentito accendere la radio ma a volume basso perché non disturbi la concentrazione.

Di nuovo prova la gioia di alterare l’ambiente con un apparecchio.

La musica ad accompagnare la mia vita.

Désenchantée una canzone francese cui Dietmar non resiste.

Con la mente torna a Parigi insieme a Paula.

Accidenti che note, non mi riesco a trattenere. Le lacrime. Stanno per uscire le lacrime.

Ma poi qualcosa si rompe nell’incanto di Dietmar e pensa alla cosa più terribile della sua educazione. Pensa all’ostacolo più grosso che gli ha impedito sin da ragazzo di diventare qualcuno quando abitava il francese.

Non può che pensare a Paula e alla XIII C: lei quell’ostacolo non sembrava averlo.

Era così sicura di arrivare. Voleva, voleva intensamente. Ed è arrivata sino ai vertici della casa editrice Piper dove cominciò l’Ausbildung.

 

– „Perché io non ho voluto così intensamente?”

– „Cosa è stato mai quell’ostacolo?”

– „Cosa mi ha sempre impedito di volere intensamente, di amare più gli altri di me stesso?”

– „Di ritenere il mio destino insignificante?”

– „Di ritenermi uno qualunque?”

– „Como sono arrivato alla crisi subito dopo l’amore con Paula?”

– „Cosa mi ha portato a lasciare tutto e essere quel che sono, essere dove sono?”

 

– „Che nome ha mai questo ostacolo?”

E mentre pensava tutto questo, Dietmar sentiva di essere vicino alla soluzione del suo rammarico. Sembrava aver trovato ma non veniva fuori il nome.

 

Perché i sentimenti senza un nome sono terribili da sopportare.

„Allora forza, ci sono quasi.”

„Sento di capire che io sono stato impedito…che mi mancava una volontà forte che passasse sopra a tutto.

Si è andata così.”

– „Ma perché?”

– „Quale sarà mai questa parola?”

 

Passano pochi secondi e la canzone sta quasi per chiudersi.

Sembrava tutto svanito, finito il disincanto.

 

„Compassione! Compassione o pietà!”

„Ecco di cosa si tratta.”

„Non può che essere così.

È la più profonda compassione o la pietà per i casi del mondo l’ostacolo alla mia esistenza.”

 

Non passarono che pochi secondi e a Dietmar vennero chiari episodi della sua vita passata, prima di Parigi, prima di Paula.

Era nella palestra della scuola un pomeriggio di autunno e il professor Buchtas aveva insistito per correre in cortile nonostante la temperatura.

Dietmar era in quel periodo, con discrezione, avvicinato da Carola la sua compagna di banco.

Carola era davvero brava in tutte le materie ma non in ginnastica.

Portava la coda di cavallo come si usava a quell’età.

Il professor Buchtas aveva ordinato a tutta la classe di cambiarsi i vestiti e i ragazzi erano già fuori in cortile che approfittavano dell’attesa giocando a pallone con una piccola palla di gomma piuma.

Fu così che il professor Buchtas si spazientì e ordinò alle ultime ragazze di uscire in fretta altrimenti avrebbe preso provvedimenti disciplinari.

Ma non lo fece lui direttamente.

Chiamò Dietmar in pantaloncini e gli intimò di entrare nello spogliatoio delle ragazze.

La cosa era vagamente proibita ma io avevo l’ordine del professore di ginnastica Philippe Buchtas.

 

Le ragazze usciva piano piano, infreddolite.

Ma si trattava di controllare che fossero tutte fuori.

Ecco fu proprio in quel giorno d’autunno che mi costrinsi ad entrare negli spogliatoi.

Carola non sembrava affatto preoccupata che qualcuno controllasse.

Aprii la porta. Piano.

Vedevo i vestiti appesi, i nastri e i paltò.

Vedevo le docce delle ragazze che sembravano più pulite delle nostre.

Più lontano c’erano i bagni, ma quelli non riuscivo a vederli.

Credevo non ci fosse più nessuno ma dovevo aprire la porta del tutto per scoprirlo.

Mentre apro la porta, ricorda Dietmar, speravo intensamente non ci fosse nessuno.

Ma vedo una scarpa da ginnastica e al suo fianco una scarpa nera col tacco.

E vedo i piedi. Capisco che una compagna, una almeno è rimasta nello spogliatoio.

È Carola. Si sporge con la testa e la faccia imbronciata.

– „Ha detto il professore…”

– „Ha detto il professore…”

– „Non vengo!” Risponde lei.

Sono costretto a richiudere la porta dietro di me ed entrare del tutto nello spogliatoio.

Compio un gesto elementare e innocente. Mi sporgo per chiudere la porta e chiarire con Carola che il professor Buchtas vuole tutti fuori anche se è autunno, anche se fa freddo.

 

Carola non ha i pantaloni della tuta.

Ecco cosa succede! Vedo la gamba sinistra di Carola. È bianca, molto chiara.

Le vedo la coscia e il polpaccio fin su verso il ginocchio. La mia compagna di classe che mi chiede sempre discretamente come sta il mio gatto è ora qui davanti a me.

La devo invitare a vestirsi. Ma vedo la gamba, la pelle bianca e provo un senso di imbarazzo. Quasi che i suoi bei voti in matematica e storia si sgretolino d’un tratto.

Carola? La mia compagna di banco? La più brava?

E ha la gamba bianca come un cencio! Fa rabbrividire.

 

Dio che piètà, penso.


Quella è uno dei primi ricordi chiari della pietà.

Povera Carola.

Da allora ho continuato a pensare: povera Carola!

 

Tornando a casa un giorno d’autunno, qualche giorno dopo l’inizio della scuola, Stephan mi invita ad accompagnarlo a casa sua.

– „Telefoniamo a casa tua e spieghi a tua madre che rimani a mangiare da me.”

– „Mia madre non c’è ma non lo diremo ai tuoi.”

Sono titubante ma alla fine decido di seguire Stephan. È arrivato con la madre dalla Germania dell’Est; un Ossi.

Si parla molto di lui in classe. Non crede in Dio e ha idee alquanto strane. Ha anche abitudine strane.

Ma decido di avvicinare questo ragazzo che credo non abbia amici.

Di nuovo spunta la compassione.

Ma è più avanti che provo pietà.

Andiamo a piedi sino alla fermata dell’U-Bahn. Una volta saliti percorriamo tutta la città in direzione Neuperlach. Poi un bus per sei fermate.

Non sapevo che a Monaco ci sono case come nella DDR.

Provo un certo imbarazzo, quasi paura. E preparo il campo alla pietà.

 

Stephan mi dice che non ha telefono a casa. Si ferma davanti ad una cabina e mi invita a telefonare con uno stratagemma.

Prende una moneta bucata e tenuta da un filo sottile da pesca. La infila nella cabina sino a che rimane sospesa e il ricevitore suona libero.

Io compongo il numero mentre lui tiene la moneta sospesa.

Non bisogna farsi beccare a lasciarla cadere altrimenti controllano la cabina e si viene segnalati alla polizia.

 

– „Pronto papà, sono Dietmar: ho accompagnato Stephan a casa e mi fermo a mangiare da lui, va bene?”

– „Come chi è Stephan? È Dallinger, Stephan Dallinger. Sì, sì tutto tranquillo c’è sua madre che cucina per noi.”

– „Va bene, lo invitiamo anche noi a casa… va bene la prossima volta ti avverto prima…sai è stato tutto così spontaneo.”

 

Con la moneta ha funzionato.

Posso salire le scale dell’edificio tranquillo anche se ho fame.

Stephan mi tranquillizza dicendo che avremmo potuto mangiare a casa sua.

Il corridoio è buio e la cucina triste, in casa non c’è nessuno ma qualcuno è andato via da poco perché sulla piastra ancora calda c’è un pentolone enorme con un sugo di pomodoro.

Cuoce da parecchio tempo credo e Stephan mi invita a mangiare: una fetta a testa di pane un pò secco con sugo di pomodore piccante.

Mordo il pane che è davvero molto duro ed ecco che ritorna la pietà. Provo pietà per la DDR, per l’uomo nuovo, per lo scherzo, sento la compassione che sale nel mio corpo e si confonde con il buio dell’alloggio. Sul lato della cucina c’è un souvenir di una località turistica e un angelo.

La pietà mi prende allo stomaco e non riesco quasi a mangiare. I bocconi sono lunghi da masticare e sento la lingua infuocata dal piccante.

Che gusto orribile. Mastico e dimentico dove sono. Vedo poco perché è buio e non ricordo molto. Devo aver trovato una scusa e sono tornato a casa solo.

 

Solo. Dietmar è solo in ufficio. Quanto tempo è passato? E quanto devo ancora trascorrerne fra queste carte.

Ma oggi è venerdì. La mente vaga. Questa è la mia vita.

Oggi non mi son fatto la barba. Oggi è venerdì e passerò un fine settimana indimenticabile; a scrivere e leggere, fumare e sognare sulle note delle mie musiche preferite.

Io sono, sì io sono. In questo momento lo sento, sento la musica che mi entra nella pelle.

Scrivere per ringraziare di tanta bellezza nella mia vita. Tutta così improvvisa.

 

Le restante ore Dietmar le ha passate a organizzare l’ufficio, ha preparato il lavoro per il lunedì ma senza interesse. Più volte la radio era il suo appiglio. Più volte ha quasi dormito intento poi a nascondere i suoi sogni.

Dimenticando i conti e dimenticando di essere un contabile.

Il pomeriggio era arrivato dopo tanta attesa e le ultime ore potevano essere terribili ma ormai tutti i pensieri erano rivolti al fine settimana.

 

L’edera dell’edificio di fronte all’ufficio è verde e ricorda a Dietmar il giardino della sua casa quando ragazzo serviva alla figlia della vicina piatti fantastici guarniti con foglie verdi di edera e bevevano succo di bacche dai nomi immaginari.

È tutta questione di sentirsi felici, altro non conta; e Dietmar si sente felice davvero pago di essere immerso nella città e la città pare volergli bene. E di tutto questo non vuole altro che scrivere. C’è un po di vento e l’idea è ora di andare al Viktualienmarkt che starà chiudendo e dirigersi poi verso la metropolitana.

La vita è vana, questo è chiaro a Dietmar, ma non è indifferente alle persone e a chi scrive;  oggi, venerdì, Dietmar non vuole proprio differire la sua esistenza nella speranza di un futuro economico migliore o nell’attesa di un senso che non c’è.

Anche camminare senza meta e lasciarsi distrarre dall’edera dell’edificio di fronte: anche questo è vano ma degno di essere goduto.

 

Ippias Andreopulos era nato a Salonicco 53 anni fa e beveva Ouzo senza curarsi degli effetti euforici che provocava anzi si compiaceva di provare ancora, sempre ancora, l’ebbrezza dell’alcol.

Salonicco aveva un porto, questo Dietmar lo sapeva e sapeva anche che San Paolo aveva scritto un lettera ai Tessalonicesi che qualcosa aveva a che fare con quei luoghi.

Sapeva questo e poco altro ma non diminuiva per ciò la gioia di dirigersi verso il locale di Ippias verso la Raminestrasse, così che dopo una sigaretta spenta in fretta Dietmar entra dentro il tram 18 e si sfrega la timida barbetta con un pensiero dolce, compiacente: di Salonicco non mi frega molto ma di Ippias sì.

Cosa mi lega a un Greco ristoratore dedito all’alcol e che non parla neppure un buon tedesco?

Dietmar ha un momento di disappunto seduto sul sedile foderato di tessuto blu della metropolitana e di fronte a lui c’è una signora che passa il tempo con il Sudoku.

E cosa mi lega alla dottoressa Felder e ai suoi immobili? Cosa me ne frega?

A pensarci bene non mi interessa sapere le spese da detrarre dei coniugi Frings o del grafico Munster.

E se non mi importa niente di loro, se non mi importa niente di Salonicco e della lettara ai Tessalonicesi, mi interessa invece bere Ouzo con Ippias magari arrivando con un quaderno e una biro nera per scrivere quel che mi passa per la testa.

Una ragione per tutto. Ci vuole una ragione per tutto ma tutto è vano. Oggi è venerdì e ho due giorni per dimenticare che sono un contabile e se berrò abbastanza alcol magari dimenticherò anche che tutto è vano e scriverò qualcosa. Qualsiasi cosa.

 

Ippias era seduto al tavolo numero 3 riservato per l’avvocato Horn. Veniva tutte le sere e sedeva sempre al tavolo tre di fronte alla finestra e un po’ riparato.

Ippias sapeva come vendere e come comprare ma non aveva l’abitudine di lusingare i clienti ricchi per via dei loro soldi. E questo piaceva ai clienti. Se diceva qualcosa lo pensava prima e poi si sforzava di esprimerlo in tedesco. Non temeva gli errori quanto piuttosto di non essere compreso.

Non riponeva grande interesse nei soldi e si potrebbe pensare per via del benessere raggiunto in trentacinque anni di ristorazione a Monaco di Baviera. Ma sarebbe ingrato nei confronti di Ippias perché invero aveva, questo omino dai capelli neri per niente imbiancati con gli anni e coi baffi, una vocazione a mettere le persone a loro agio e non legava questa sua dote neppure lontanamente al denaro e vantaggi personali.

 

Dietmar arrivava un poco stanco e contento di entrare nel calore di quel ristoratore greco che con suo padre aveva conosciuto superficialmente ma che da quando era contabile frequentava con una certa regolarità e possiamo dire anche con un certo affetto.

 

Ippias andò alla porta ad accogliere Dietmar. Non c’era molta gente nel locale e Ippias poteva lasciare la cassa e aprire la porta. Non parlava subito, voleva che i clienti e gli amici fossero davevero dentro il locale.

 

Suonava musica greca e un cameriere si apprestava a mettere olio e aceto sui tavoli e a indicare i tavoli riservati secondo quanto scritto nella grossa agenda aperta proprio davanti ai vini.

 

Ippias accolse con calore Dietmar ma più di tutto piacque il sorriso sotto i baffi neri e le rughe che nascevano ai lati della bocca del proprietario greco del locale.

Più di tutto era quella complicità che Ippias mostrava senza tante parole che in tedesco gli riuscivano innaturali e le evitava volentieri.

 

Dietmar voleva contraccambiare in qualche modo ma si tolse solo la giacca e si avviarono verso il tavolo 3. Era molto contento di leggere nei gesti e nei silenzi un trattamento diverso dai clienti abituali.

Ippias lo invitò a bere. Poi dovette spiegargli che aspettavano a momenti una festa di compleanno con parecchi ragazzini. Non avrebbe avuto tempo ma fece spostare Dietmar al tavolo sei dove c’erano quattro ragazzi tedeschi poco più che adolescenti. Bevevano allegramente birra e vedendo arrivare il proprietario si mostrarono composti.

Ippias disse: „Questo è il mio amico Dietmar. Credo che starà bene al vostro tavolo e per mostrarvi la sua benevolenza vi offre un giro di birre, vero Dietmar?”

 

Dietmar indugiava ma non poteva più tirarsi indietro. „Solo un paio di birre, non preoccupatevi, non mi tratterrò a lungo”

– „Io sono Charlie”, disse il primo sulla destra. Era biondo e portava i capelli corti, aveva un maglione blu scuro.

– „Lui è Jens e alla tua sinistra ci sono Florian e Gottfried. Siamo tutti studenti appena iscritti all’università, Jens ed io, proseguì Charlie, ci siamo iscritti alla facoltà di ingegneria delle costruzioni, Gottried musica e filosofia mentre Florian studierà germanistica e teatro.

E tu? Che fai?” chiese convinto dai modi che Ippias aveva riservato a Dietmar e i quattro avevano finito per credere che fosse una persona di riguardo.

Agli occhi di Dietmar i quattro amici parevano sognare, vedeva che erano legati più dal futuro incerto che dalla certa realtà. E tuttavia proprio sentirli disposti ad ascoltare senza riserva concedendogli di dire qualsiasi cosa lusingava Dietmar in modo da non farlo riflettere sulla risposta:

– „Scrivo, tutto quel che conta è che scrivo”

Appena pronunciate queste parole sentiva di aver mentito prima ancora a se stesso che ai quattro ragazzi. Ma l’effetto dell’Ouzo e l’accoglienza di Ippias, il locale che intanto si era fatto parecchio rumoroso per via della scolaresca e la festa di compleanno e la disposizione dei suoi interlocutori aveva davvero fatto precipitare la risposta.

Presa questa via, come spesso accade quando preso un inizio affrettato e del tutto imprevedibile si prosegue ancor meno cauti, Dietmar meditò un poco su come proseguire, si lisciò la barba per sentire se veramente cresceva e propose un brindisi a Ippias.

Tutti alzarono i bicchieri e fu allora che Dietmar vide gli occhi puntati su di sè ma non voleva tradire l’imbarazzo.

-“Quando mi sono diplomato al Liceo Von Humboldt, confida, ero pieno di speranze. Ero come voi, mi ero iscritto anch’io all’università nella stessa facoltà di Paula, sapete il mio era amore.”

Charlie sorseggiò l’ultima birra e si strofinò il labbro superiore pieno di schiuma.

„Una Helles – e l’Agustiner è la migliore – deve lasciare sul bicchiere la striscia di schiuma di ogni sorsata. Fresca scende bene e vien voglia di fumare una sigaretta” disse Dietmar per distrarsi dal discorso su Paula.

Jens dice: „Parla, parla ancora! Cosa è successo con Paula?”

– „No, questo non posso raccontarvelo, lo sto scrivendo in un racconto e per scaramanzia preferisco tralasciare l’argomento. Sto scrivendo anche di Uwe che è stato con me lunghe giornate inutili, piene di voci e corridoi sino a che l’hanno trasferito.

Uwe? Voi non sapete di Uwe e di quanto varia è la vita. O forse lo sapete anche voi. Io ho consociuto gente come lui e come me: per questo scrivo” e dopo aver proferito queste parole si rese conto di esser stato nebuloso ma capiva anche che si era creata una certa confidenza, piacevole e inaspettata.

 

Jens si rivolge con un’occhiata a Charlie che sembra capire. Si era creata anche tra i quattro un’intesa altrimenti improbabile dovuta alle birre e alla coincidenza.

Il locale è accogliente anche se molto rumoroso.

Allora Charlie vuol parlare ma con il consenso di tutti e dice:

– „Siete d’accordo? Glielo diciamo?”

Dietmar si guarda bene dal dire qualcosa.

Nessuno si oppone e anzi paiono aspettare con trepidazione le parole di Charlie.

Ma Jens sembra voler interrompere quell’attesa e chiede:

– „Andiamo a fumare una sigaretta?”

– „Sì, buona idea”- dice Florian e i due si alzano.

Gli altri, compreso Dietmar, capiscono che è meglio per tutti uscire nel cortile dove un posacenere è poggiato su un tavolino attorno al quale ci sono due ragazze che fumano e chiacchierano.

Tuttavia resta come sospesa la domanda fatta da Charlie.

Charlie dice una cosa molto banale. Le due ragazze entrano di nuovo nel locale.

Charlie appunto si lamenta del divieto del fumo nei locali.

– „Come era bello fumare attorno al tavolo”.

Ma proprio la banalità di quella affermazione convince tutti che è il caso di rivelare a Dietmar qualcosa.

– „Non credi che sia bello aver qualcosa da nascondere agli altri pur volendolo confidare?”

Dietmar non capisce la domanda e tira una boccata.

– „Tu hai detto che sei scrittore, prosegue Charlie. Io credo che chi scrive vuole nascondere un qualche segreto che costruisce pian piano fino a volerlo poi rendere pubblico.

Ormai è chiaro a tutti e quattro i ragazzi che vogliono rivelare il loro segreto.

E Charlie continua:

– „Noi anche scriviamo, perlopiù poesie, ma anche racconti. Siamo convinti che ci sia qualcosa da dire, qualcosa da raccontare.

Florian per esempio ha scritto qeusta breve poesia. Non siamo nichilisti ma qualche volta ne siamo affascinati.”

E Charlie porge a Ditemar un foglietto con queste righe :

 

La vita è un’appesa

la storia un’attesa

speranza che tace.

A volte dispiace

ma il fumo del niente

è già alto sul continente.

 

 

Dietmar ha ancora la sigaretta in bocca, tira una nota e legge attentamente.

Scrivere è confidarsi; Dietmar presta molta attenzione a quelle righe: non perché siano il prodotto di un genio quanto piuttosto per il carattere confidenziale con cui sono sottoposte al suo giudizio e per la grafia particolarmente graziosa.

Ma voglio davvero dare un giudizio?

Ne sono in grado?

Non importa- pensa Dietmar- è il caso di accogliere con gioia queste righe e confidarne delle proprie.

Il genio, lo spirito del tempo sarà stato uno spirito ribelle, forse; ma avrà scambiato anche lui pensieri con i suoi amici, con la sua cerchia, con le dame di corte e gli intellettuali.

E un genio, venne forse subito compreso dai suoi contemporanei?

Non sembra, pensò Dietmar.

 

E coloro che non furono geni, sono forse da biasimare perché tentarono un’arte? È forse degno d’onore anch’egli?

Nessun uomo è un genio per il proprio cameriere

 

Passano pochi istanti e tutti hanno finito di fumare. Si decide di rientrare anche se è molto rumoroso. Dietmar ha evitato qualsiasi commento alla poesia ma alcuni peniseri in proposito li ha fatti. Ha un prurito sulla testa e trova decisamente troppo caotico il locale per via della festa di compleanno. È indeciso se esprimere il suo disagio.

Jens vuole ordinare un’altra birra ed è così che Dietmar dice: „Perché non usciamo di qui? Perché non andiamo in un locale più tranquillo?

C’è un po’ di esitazione, ci son da pagare le birre ed è allora che Dietmar propone: „alle birre ci penso io, purchè si esca di qui!”

„Ippias, Ippias!”

Ippias esce dall’antro dietro la cassa e si fa largo a stento fra i festeggianti.

Dietmar è contento di pagare per tutti e di uscire.

Fuori è fresco e i cinque si dirigono verso la fermata del tram.

Si capisce che c’è ancora da chiacchierare, che qualcosa non è stato detto ma sembrano mancare le parole.

Passano alcuni minuti, il tram non arriva e Florian confida qualcosa a Dietmar.

– „Noi siamo dei sognatori. Sappiamo di esserlo. Scriviamo qualcosa, forse troppo poco ma ci dilettiamo a sognare insieme.

Le nostre poesie e i nostri racconti li spediamo anonimi a indirizzi sconosciuti. Non ci interessa una risposta.

Le poche cose di cui siamo in possesso sono i nostri sogni e ci accontentiamo.”

Dietmar sentiva un certo imbarazzo. Sembra tutto così evanescente. È quasi sul punto di dirlo quando Florian riprende:

– „Se qualcosa è bello, che importa chi ne è l’autore? Anche la natura è bella e non ci interessa cercarne l’autore. Ma non fraintendere, se non siamo grati a qualcuno, per così dire ad un creatore, ciò non significa che smettiamo di essere grati.

Non abbiamo alcun successo, non lo cerchiamo e forse ci fa paura. È questo il senso della nostra poesia: ormai in Occidente si cerca il successo, solo il successo. Ma quante belle cose ci sono…e senza successo.

E tu perché scrivi? E cosa scrivi?”

Ecco, pensa Dietmar, ho tergiversato tanto. Ora una domanda diretta, senza possibilità di scampo.

Di nuovo Dietmar si liscia la barba. È tentato di accendere una sigaretta. Mette le mani in tasca e vede che tutti e quattro non fanno che osservarlo.

A vent’anni ci si entusiasma in fretta, ma non si mantiene la giusta distanza, pensa.

 

– „Ho parlato di Uwe. Voi non lo conoscete e non lo conoscerete. Siamo stati compagni di stanza in una clinica. Lo dico a voi perché mi sembrate sinceri. Sono stato in una clinica. Credevo di non poterne più uscire e per quel che ne so io Uwe non è ancora uscito. Lo spostano di reparto, lo spostano di clinica e anche di città. Non so più dove si trovi ora. Ma Uwe senza volerlo mi ha insegnato qualcosa.

La vita può essere molto diversa.

Io scrivo per quelli come lui, per quelli che non sapendolo rispondono diversamente alle domande della vita.

Quando ero ragazzino andavo a trovare uno zio fuori Monaco a Wolfrathausen. Sembrava contento di farmi vedere il giardino e la casa che aveva fatto ristrutturare. Molte volte mi proponeva di aiutarlo e visto che aveva un laboratorio molto fornito lo aiutavo con gli attrezzi e in giardino. Tutti gli attrezzi erano al loro posto. Lo zio Helmuth, così si chiamava, mi indicava le chiavi inglesi, il tornio, la falciatrice, gli attrezzi per il giardino. Mi seguiva in tutto. Tutto era molto ordinato.

Le prime volte ero entusiasta che qualcuno sostituisse all’affetto della mamma che mi è sempre mancata un insegnamento pignolo educandomi alle arti della meccanica, del giardiniere.

 

Un giorno proposi allo zio di portargli la mia bicicletta a cui volevo aggiungere un portapacchi trovato in un mercato delle pulci. Storse il naso ma poi tradito da una qualche compassione o forse dal desiderio di dimostrare pienamente il suo credo mi concesse di portare la bicicletta e il portapacchi con la metropolitana nel suo laboratorio.

Andammo nel laboratorio di primo pomeriggio.

Presi una chiave inglese e mi fece notare che non era quella giusta. Guardò la bicicletta e disse che non valeva la pena di farci un qualche lavoro.

-“Se vuoi fare un lavoro devi farlo bene!”

Io non volevo lasciarmi convincere ma non riuscii in alcun modo ad evitare il suo interesse.

Mi sembrava che per insegnare qualcosa a se stesso dovesse insegnarlo ad altri. Io ero ideale per questa sua fede. Sì, perché si tratta di una fede. Lo zio credeva fermamente che ci fossero delle regole in tutto, le regole della meccanica.

Per carità ci sono. Ma io volevo impararle con l’esperienza e liberarmene presto. Lui voleva insegnarmi proprio l’esperienza che andavo cercando nelle viti e nei bulloni.

O forse io non volevo neppure impararle, volevo solo montare il portapacchi.

– „Per prima cosa, disse, devi pulire la bicicletta. Deve essere lubrificata.”

La cosa non mi piaceva. Ma non avevo altra scelta. Pulii meglio che potei la mia vecchia bicicletta; passò diverso tempo e temevo di perdere la determinazione di montare il portapacchi.

Infatti lo zio intervenne più volte e fece notare che il telaio doveva essere laccato. Gli dissi che non avevo intenzione di farlo ora. Che volevo semplicemente montare il portapacchi. Il tono della voce si faceva stridulo e mostravo la mia sofferenza per la disponibilità che lo zio aveva manifestato e che ora negava.

 

-“Va bene, disse, lo faremo insieme.”

Fu veramente uno strazio il suo aiuto.

Io cercavo di svitare un bullone e lui mi spiegava dove fare leva con la chiave. La ruggine rendeva la cosa difficile e se non mi fossi impuntato più volte avrebbe agito da solo.

– „Non si usano così gli attrezzi, non nella mia officina!”

Ero quasi in collera, ma come succede quando si è giovani non riuscivo a spiegarmi e armeggiavo con le chiavi.

La ruota venne finalemnte fuori e potevo assemblare il portapacchi. Il fatto che fosse usato, che non fosse costato molti soldi, era per me una grande consolazione. I ferri laterali tuttavia erano allentati e non pareva entrare perfettamente sul mozzo.

Non mi persi d’animo e fissai i primi bulloni.

Lo zio si spazientì e disse che era il caso di smettere.

 

Non volevo smettere per niente al mondo, inoltre con il portapacchi montato a metà non avrei potuto neppure girare liberamente per la città.

– „Ma non vedi che il portapacchi è tutto arrugginito? Sono stato uno sciocco a lasciarti fare sino ad adesso: è ora di smetterla”.

 

Mi impuntai. Dissi che volevo almeno montarlo provvisoriamente per andare a casa.

Per fortuna la seconda vite riuscii ad avvitarla con facilità, cosa che non pensavo.

 

Lo zio allora mi prese da parte. Mi disse che dovevo rimettere tutti gli attrezzi a posto, che dovevo pulire. Che tutto doveva tornare ordinato come prima.

Non ci fu bisogno di molto tempo e mi apprestavo a lasciare la casa per prendere la metropolitana quando lo zio mi disse:

– „Senti Dietmar, che ne diresti di fare così. Io parlo con tuo padre e la prossima volta che vengo in città andiamo insieme nella Falkenstrasse e ti compro una biciceltta come si deve.”

 

„Come si deve”. Mi ricordo ancora queste parole.

L’offerta per cui potevo gioire mi rese invece triste. Quasi che tutto quel che avevo fatto fosse da buttare.

Forse lo era da buttare. Ma per il fatto che io ci tenessi lo zio avrebbe dovuto avere riguardo.

 

E forse voi direte che aveva ragione lo zio. Gli attrezzi vanno al loro posto. Il laboratorio pulito. Io però in tutto quello sentivo una pretesa, la pretesa di aver trovato il principio che connette tutto quello che si presenta davanti all’uomo, quasi una legge universale.

 

Ma se aveste conosciuto Uwe non la pensereste così.

 

– „Io non voglio dire niente sullo zio. Ma dove hai conosciuto Uwe? In quale clinica”, disse Jens

– „Era mio compagno di stanza in una clinica. Di più non voglio dire. È stato dopo il viaggio a Parigi con Paula. Una crisi che doveva essere passeggera.”

 

– „Vogliamo andare con la metropolitana. Il tram non arriva.” propose Florian

– „Forse è meglio che io vada a casa. Avrei troppo da raccontare ma non so neppure perché vi ho raccontato tutto ciò.

Perché scrivo? Ecco da dove è cominciato tutto.

E forse è proprio il caso che torni a casa a scrivere.”

 

Era finito tutto in fretta. I quattro nell’U-Bahn in una direzione e Dietmar nella direzione opposta e ora di nuovo davanti al computer. Era bastato un semplice saluto e la proposta di rivedersi da Ippias di sabato. Quando? Quando capiterà.

 

Di nuovo a casa, di nuovo la radio e il computer.

Con molta curiosità Dietmar scrive e aspetta un qualche messaggio. E non tarda ad arrrivare.

Io leggo volentieri poesie e proprio oggi ho conosciuto quattro ragazzi che mi hanno letto qualcosa che mi ha onorato… comincia a scrivere.

– „Bene, Dietmar, fai bene. Le poesie possono essere d’aiuto, possono far del bene.”

– „Ma io non le leggo perché mi faccian bene. Non le leggo con quell’intenzione. Io le leggo e basta. Ci vuole sempre un’intenzione? Forse è proprio quella che toglie il piacere delle cose.

Ho raccontato ai quattro studenti dello zio Helmut. Mi è venuta in mente la volta che provai a montare il portapacchi sulla mia vecchia bicletta. Non avevo un’intenzione chiara.

Ma lo zio non lo voglio ricordare stasera.

Stasera è venerdì e sono uno scrittore. Mi piace scrivere e leggere poesie. O forse no. Non so.”

Dietmar è tardi, forse dovresti andare a dormire, non credi?”

No, non lo credo, ho ancora tanta cose da pensare. Questo silenzio mi piace, riscopro bello il buio della notte. Tutto è bello e vero a quest’ora, sapere che attorno a me c’è la città e non vederla. Non vedere nessune eppure sapere di esserne parte.”

Dietmar cosa hai intenzione di fare questa sera? Sarebbe meglio…”

Io penso a Felix Pocher della cartoleria. È venerdì sera ed è andato sicuramente in discoteca. Dice che non gli piace la musica alta ma poi ci va ogni venerdì e qualche volta anche di sabato. E incontra ragazze come Claudia del McDonalds che lavora sino alle 23, si fa la doccia in fretta dalla sua amica Ingrid e vanno insieme nella stessa discoteca.

Lo sai cosa sta facendo invece Edmund? Ricordi Edmund che crede di essere in mezzo alla rivoluzione e adora la zia Therese? Edmund sta leggendo la Fenomenologia della spirito perché è a partire da quella che si deve leggere Marx. Ecco un’altra intenzione. La zia Therese è al ristorante pizzeria da Mario alla ricerca di una qualche avventura. Lo sai tutto questo? Io lo so.

 

E Paula? L’adorabile Paula dov’è a quest’ora?”

Dietmar, Paula è davanti al computer di casa sua. Ha messo a letto il figlioletto e ricerca con google il nome di un’autore inglese a cui nella casa editrice sembrano interessati. Intanto ascolta il Rondò Veneziano. Non si ricorda di Parigi. Non come te ne ricordi tu. Non pensa affatto agli indizi che cercavate insieme. Agli indizi che portavano a Simenon. Paula non la vedi da tanti anni. Da quando poi sei stato male, Dietmar. È vero, ha una posizione importante nella casa editrice e non ha mai più letto un Simenon. Quando prende un caffè latte la mattina lo ordina bollente, con poca schiuma e vuole una spolverata di cacao sopra. Poi si siede in un angolo e attende prima di bere. Se non è abbastanza caldo lo reclama, se lo fa rifare. È molto esigente.”

No, non è esigente. Ha una grande considerazione di sé.”

Che vuoi dire?”

Mentre ordina il caffè latte spiega anche che non è una qualunque. Dice al barista, ai clienti come lei, che è importante. Che è degna di considerazione. Che lavora bene e esige che si lavori bene per lei. Gli dice pure che dirige la collana dei saggi di Antropologia della casa editrice Piper. Dice che guadagna più di quattromila euro al mese. E che li merita. Lo dice vestita Dolce e Gabbana e col profumo di Chanel. E che lavora più di undici ore al giorno. Lei lo dice in quel modo. Io so tutto questo e altro ancora.

Quando vado a farmi tagliare i capelli, in un negozio unisex assisto a cerimonie simili. Le donne, soprattutto le donne parlano di doppie punte, di manicure, di colpi di sole. Perché mi pare di capirle le donne.

In verità dicono tutt’altro. Parlano del marito che torna a casa tardi la sera, stanco ma che vuole loro bene. Che si toglie la cravatta e mette le pantofole. Un marito che non discute la parrucchiera e i colpi di sole. Che vuole la propria moglia diversa dalle altre, diversa dalla massa.

 

Io invece vorrei essere come la massa, per niente diverso. Uno dei tanti. E invece sono qui a scrivere senza sapere dove porterà tutto questo. Senza essere sicuro che non porti alla pazzia.”

Dietmar è proprio questo di cui volevo parlarti. Ora sarebbe il caso di spegnere la radio, di mettere il pigiama ed andare a dormire. Quello che hai fatto sino ad ora è ammirevole. Hai scritto, hai ricordato. Ma…”

Invece proprio stasera ho capito che tutto è diverso. E Dietmar alza il volume della radio, si accende una sigaretta e osserva fuori dalla finestra. Non vede Florian, l’ubriacone ma è come se lo sentisse. Gli sembra di essere li con lui a bere una Weißbier. Dalla radio escono note molto belle di una canzone che Dietmar ascolta per la prima volta, o forse no, ma non importa. È dedicata a F. e parla di rabbia e fiori rossi. Parla della rivoluzione che fa ognuno di noi quando per cambiare se stesso sente di cambiare il mondo; e ci riesce con le folle che si riversano sulle strade e con la birra o il vino.

E nascono gli amori più strani e più violenti, amori molto intensi.

Intensi come quello per Paula?” Si chiede Dietmar

– „A Paula non hai smesso di pensarci, vero Dietmar?”

– „E come potrei? Da allora…”

– „Ma ora non è che un’idea quella che hai in testa. È passato così tanto tempo. Forse quello che cerchi nelle persone che incontri e descrivi è solo Paula.”

A me piace la gente. A me piace questa città. Io ci sono nato e giro volentieri in metropolitana. Vorrei conoscerla la gente. Che ne è di Sara?”

Ma Sara lavora nella panetteria della stazione, lo hai dimenticato? Adesso si sta preparando per andare a dormire perché è tardi, Dietmar. Domani scriverai di nuovo.”

Questa notte non andrò a dormire. Questa notte starò sveglio. Ecco è cominciata questa bellissima canzone, sento gli accordi della chitarra e ora la voce femminile. Mi pare di capire che è gira tutto intorno all’amore e alla mancanza di amore (Don’t break my heart, don’t break my heart). Tutti cerchiamo un po’ di tenerezza. E perché non posso cercarla anch’io questa notte?”

 

Dietmar pensa ai suoi libri, a quelli che ha comprato e non ha mai letto e a quelli di poesie che ha letto e riletto più volte.

Pensa a tutto ciò e non sembra venirgli sonno. Suo fratello, anzi il suo fratellastro, di ritorno da un viaggio d’amore con un’austriaca di nome Gertrud, passando a trovare un fratello di lei residente in Slovenia, si era talmente affezionato al suo nuovo amore che decise di celebrare quell’evento con una vistita a Venezia di primo mattino. Rimase qui quattro notti e vi aveva scoperto la biblioteca del nobile decaduto Francesco D’Ancho. Era rimasto talmente impressionato dai codici e dagli incunabili di cui era in possesso che aveva deciso di cedere tutti i suoi libri di poesia, fotografia e arte. Non gli parevano degni di alcun valore. Aveva lasciato così a Dietmar diversi libri e a questi si erano aggiunti quelli del padre e piano piano libri soprattutto usati che Dietmar aveva sistemato con un ordine davvero particolare: non erano divisi in ordine alfabetico o per casa editrice. Erano divisi per dimensione perché così poteva meglio riempire gli scaffali i cui ripiani non erano di eguali altezze. Certo i libri avevano finito per avere un ordine anche intuibile, ogni collana aveva la stessa dimensione ed erano dunque raggruppate le poesie in lingua tedesca delle edizioni Bosch, come pure alcuni gialli al piano superiore. Più in alto c’erano dei libri di fotografia del fratellastro: quelli erano invece mescolati perché erano di dimensioni una differente dall’altra.

 

Dietmar vede un’edizione elegante delle poesie di Holderin in cinque volumi verde chiaro ma poi proprio a fianco della stessa collana tira fuori il secondo volume di poesie di Heinirch Heine rilegati e cuciti a mano, delle edizioni Aufbau-Verlag Berlin und Weimar del 1968. In tutto erano cinque volume che Dietmar ringraziava di avere tutti e sulla prima di copertina era scritto in caratteri dorati il nome del poeta. Il dorso ha tre corone di allori intervallate da righe anch’esse dorate e in campo nero proprio nella parte superiore sotto il nome del poeta c’è il numero due a indicare il secondo volume.

Nell’occhiello viene soltanto menzionata la Bibliothek Deutscher Klassiker e di nuovo il nome di Heine.

Poco sotto una dedica: a Josef per la sua degenza, München, 27 Maggio 1972 la tua Helene.

Allora Dietmar prende il volume e senza spegnere né radio né computer esce di fretta con il volume nella tasca. Raggiunge la metropolitana e sente tutta l’importanza di quella sera, di quel libro. Raggiunge il centro e poi di nuovo l’U-Bahn in direzione Münchener Freiheit dove c’è un locale, questo lo sa, che sta aperto sino al mattino. Un bar dove si fuma nonostante i divieti e dove si raccolgono tipi come lui che scrivono leggono e giocano a carte.

 

Il locale non è molto affollato ma c’è diversa gente. Dietmar trova posto in un angolo verso il corridoio che porta ai gabinetti sotto un quadro di Klimt. Il posto sembra quello giusto. Tira fuori il libro. Arriva la cameriera che è anche la proprietaria a cui ordina un bicchiere di vino (noi scrittori non rinunciamo al vino quando è ora di scrivere). La graziosa e molto magra cameriera porta anche due fogli di carta e una biro insieme al giornale come Dietmar aveva richiesto. La musica non disturba e comincia a scrivere sulla carta.

Dapprima qualche appunto sparso ma poi vede nascere le prime righe cui seguono alcuni di tiri di una sigaretta che intanto aveva accesa.

La sigaretta però non passa inosservata e si avvicina Igor, un uomo che scambia volentieri qualche battuta per scroccare una fumatina o, quando la fortuna lo assiste, un boccale di birra. – „In questo locale sono nati due dei racconti più belli, non so se lo sai? Hai scelto il locale giusto per scrivere…come ti chiami?”

– „Dietmar, Dietmar F.”

– „Sì, appunto Dietmar e cosa scrivi se posso chiedere?”

– „È un racconto, il mio primo racconto. Si intitola Racconto per non pulire il bagno…”

– „Ah, ah. Bell’idea. E questo libro? Ti lasci ispirare?“ E così con disinvoltura Igor chiede e prende una sigaretta. Questo pareva il suo unico intento, ma non è così.

– „Questo libro è un regalo, ma non mi sembra il caso di parlarne“

– „E perché no? I regali sono molto importanti per chi scrive. Lo vedi questo anello con quest’incisione? Lo trovò mio nonno dentro una borsa che raccolsa durante una battuta di caccia nella foresta nera e mi fu regalato la notte di Natale del 1958 da mio padre che lo aveva ereditato. Non ereditò nient’altro dal nonno; un uomo molto spiritoso che dopo il nono figlio perse l’umorismo e gadagnò l’alcol soprattutto di contrabbando.

Mio nonno menava. E come se menava. Con la cinghia per non farsi male alle mani. Mio padre invece non pensò mai di usare le mani o la cinghia, era molto spiritoso anche lui e per non perdere l’umorismo fece due soli figli, io e mia sorella Hanna.

Ora, tu non dici che non sarebbe il caso di parlare dei regali che riceviamo. E invece il valore di uno scrittore è proprio quello di donare un valore nuovo alle cose, soprattutto a quelle che  lo hanno perduto come i regali.

Il libro che hai, in mano ad un altro, perde il suo valore. Ma se tu hai segnato qualche poesia – chi è? Heine?- se hai personalizzato qualcosa… anche Heine avrà un valore diverso.

Sul mio anello ci sono le iniziali H. B. E chi era questo H. B? O questa H.B?

Vedi? Ha perso di valore. Poi lo ha riacquistato perché mio padre me lo regalò la notte di Natale del 1958. E qui dentro – e intanto apre il libro – ci sarà magari una dedica. Eccola infatti: a Josef per la sua degenza, München, 27 Maggio 1972 la tua Helene. E tu sai chi è questa Helene? O sai almeno di cosa soffriva Josef il 27 Maggio 1972?

Dietmar ordina una birra per Igor e una per sé pur non avendo finito il vino. Esita a rispondere. Nel locale c’è un televisore e la proprietaria ha abbassato il volume per poter ascoltare il racconto di cinque disertori americani che vivono in Canada nei pressi di una zona industriale, tutti insieme in un appartamento di fortuna non lontano da un McDonalds. I cinque ricordano gli anni terribili della guerra in Iraq e a tratti vengono inserite riprese originali dei combattimenti. Con la camera in spalla e correndo dietro i soldati il cameramen ha fornito una rappresentazione drammatica e molto veritiera della guerra. Alcuni bambini vengono picchiati selvaggiamente dai soldati americani e urlano. Nel locale c’è un certo subbuglio ma quasi tutti sono concentrati a vedere questo reportage di Bayriches Rundfunk. È tardi e Dietmar non vuole rispondere a Igor. Esattamente come gli era capitato con i quattro studenti, preferisce evitare di essere interrogato soprattutto sul suo piacere recente, quello di scrivere.

 

Le immagini sono drammatiche ma presto si ritorna in Canada dove i cinque fumano, bevono e raccontano di sogni che li perseguitano di notte e di sensi di colpa per i compagni uccisi.

Poi viene mostrato un orologio Seiko molto bello, con il cinghietto in metallo e tre quadranti. Segnala anche la data ma non i giorni. Lo mostra un ragazzo dai capelli lunghi e neri mentre fuma e spiega che apparteneva a Jackie. I cinque erano in sei e tutti volevano disertare. Si scambiarono ognuno un oggetto che si sarebbero restituiti in Canada dopo la fuga, ma Jackie non è riuscito nel suo intento, è stato preso e incarcerato. Poco prima della partenza per il fronte si è impiccato nella cella del carcere militare di Dallas.

Ecco perché il ragazzo dai capelli lunghi e neri mostra l’orologio. Ecco perché Dietmar e Igor non parlan più e guardano il televisore.

Quanto possono pesare i ricordi? Pensa Dietmar che però non proferisce parola. Della guerra sappiamo molto ma sono documenti, immagini e ricordi. Eppure questi ultimi sembrano pesare parecchio e tengono svegli la notte ragazzi di ventuno e ventiquattro anni.

Dietmar crede di capire che dimenticare è un’arte. Dimenticare Paula e il viaggio a Parigi, la degenza che ne è seguita, le immagini di stanzoni grandi di ospedale, l’odore di disinfettante, quello di pietanze poco appetitose, il profumo dell’erba di fronte alla stazione 24 quando imbottito di medicinali Dietmar si distendeva sul prato e contava i fili d’erba, prima a coppie poi a gruppi e dubitava che una mente, seppure divina potesse conoscere il numero di tutti i fili d’erba, di tutto il prato. E di tutte le foglie del bosco e gli alberi che si estendevano sino alle porte di Monaco. No, pensa Dietmar, nessuno può sapere tutto ciò, nessuno comprende con la sola mente quel piccolo prato, il bosco oppure, e qui Dietmar percepiva il brivido dell’infinito, di tutte le piante del viaggio in bus sino al confine e poi oltre sino a Parigi. No, non è possibile.

Accese una sigaretta e per un attimo gli parve assurdo credere che quella mente potesse anche sapere l’origine delle foglie diventate tabacco della sua Philip Morris.

Igor beve birra e sembra intento a pensare qualcosa di importante. A Dietmar pare sia una posa per continuare a scroccare sigarette e birra ma non lo comunica. Tuttavia è convinto di non voler raccontare perché scrive e di cosa scrive.

La proprietaria del locale cambia canale e scorrono le notizie ma non si sente il volume. Torna invece la musica dell’Hi-Fi.

Igor si scusa e si dirige in bagno e Dietmar pare sollevato. La presenza così vicina di quell’estraneo lo aveva reso nervoso.

Sui fogli ordinati può riprendere a scrivere ascoltando musica. Le parole paiono ora scivolargli leggere fra le dita e dopo ogni frase, dopo ogni riga si sente sollevato.

La guerra in Iraq è passata così in fretta sotto i suoi occhi e ritorna a pensare a tutto quello che la guerra distrugge: i disegni degli architetti, le gru, le betoniere, i profili di ferro dolce, i camion che viaggiano avanti indietro. Tutto pareva concluso nell’edificio, nella stazione, nei garage. E tutto crolla sotto il cadere delle bombe.

Ma sono pensieri troppo tristi per Dietmar questa sera, che lo spingono a guardare altrove. Dapprima posa lo sguardo sulla ventola, poi giù verso i tavolini sino alle scarpe di tre clienti. E quella mente divina – pensa- che conosce tutti i fili d’erba del giardino della Haus 24, potrà mai sapere tutti i passi calpestati da queste scarpe? No, anche questo non pare possibile.

Dietmar muove il piede destro e lo appoggia sotto la sedia.

E questo movimento? L’ho compiuto io? Era prevedibile? Può mai quella mente sapere anche tutto questo?

Dietmar guarda l’orologio appeso alla parete e non sembra preoccuparsi dell’ora. È tardi ma è venerdì notte e un contabile è intento a scrivere.

Prende in mano il libro di poesie di Heinrich Heine e comincia a sfogliare. Legge delle parole qua e là. Intanto la cameriera gli ha portato dei fiammiferi con cui comincia a giocare. Senza pressione, senza sforzo Dietmar sente quanto tutto è vano e tuttavia quanto è piacevole da vivere. Poi vede il televisore e gli tornano in mente le immagini della guerra. Viene naturale un sentimento di compassione, ma la compassione chiude solo il discorso, pensa Dietmar. Compatire non è comprendere e non è neppure risolvere. Il dramma è sapere di essere spettatori e non poter far nulla. Il dolore degli altri ci rende impotenti perché noi non possiamo che poche cose nella nostra esistenza. Compatire è non voler essere impotenti.

 

Accende un fiammifero e con quello un’altra Philip Morris.

Due giocatori di scacchi cominciano una partita e Dietmar comincia a seguirne i movimenti. L’apertura è di re, le mosse molto lente e d’un tratto pensa alle partite che da ragazzo faceva al corso pomeridiano dell’amicizia e degli scacchi insieme con Georg che parlava poco.

Erano corsi per ragazzi che cominciavano ad apprendere l’arte e i misteri degli scacchi. Durante un torneo organizzato dal Liceo Von Humboldt con l’aiuto della scacchistica di Monaco, più di cento ragazzi si erano sfidati sino a che ne rimasero soltanto venti. Georg era fra i venti e un maestro propose una partita in simultanea contro i venti.

La lotta era impari. Un maestro è immensamente più forte e più veloce a muovere. A turno capitolavano tutti i liceali e uno sole rimase in piedi e cadde per ultimo. Era Georg.

Dietmar non poteva che provare ammirazione perché non era da lui provare invidia per quella prestazione.

Georg aveva ricevuto gli applausi del pubblico dei genitori e una medaglia dell’amicizia oltre ad un corso pagato per l’anno seguente presso la scacchistica di Monaco.

 

Così Dietmar tornò con la mente a quelle partite e alle discussioni che ne seguivano. Gli scacchi se sono uno sport, non ammettono niente di fortuito. Ai primi anni settanta ci fu una partita storica fra un americano, Fischer, e un russo, Spuktin che fu seguita da moltissimi appassionati di scacchi ma anche da molti altri perché si misuravano le due potenze mondiali impegnate nella guerra fredda: Stati Uniti e Unione Sovietica.

Di quelle partite si ricordavano, quando Dietmar era studente, le mosse, le arguzie, le tattiche e le strategie.

Vennero fatte rivedere le immagini e gli aneddoti. Tutto era oggetto di scontro: gli scacchi, la sala, il luogo, gli spiriti maligni.

 

E gli torna in mente il volto di Georg di quegli anni ed in particolare di una sera quando insieme erano andati a giocare in un locale vicino a Donnersbergerbrücke.

Gli parve di vedere nel volto di Georg il suo amico una resistenza, un limite a se stesso.

Erano entrati nel locale, si erano sisemati in uno dei tavolini, avevano ordinato due birre e si trovavano ora uno di fronte all’altro mentre posizionano gli scacchi.

Gerog ha i bianchi e a lui tocca la prima mossa. Ma quella sera qualcosa di inaspettato traspare dal suo viso. I capelli neri e folti sono gli stessi di sempre. Il naso importante, il mento pronunciato. Gli occhi prima di tutto sono lucidi ma non di pianto. Sono lucidi di una malinconia che accompagna gli zigomi e i movimenti dei muscoli delle guance. Che accompagnia il suo silenzio.

Perché la malinconia, pensa Dietmar, di fronte alla birra e agli scacchi, entra dolce dentro di me. Perché io sono amico di Georg, siamo qui a giocare a scacchi mentre fuori è buio ed è freddo. E la malinconia fredda è entrata con Georg dentro il locale e ora si appresta ad aprire di re anche lui, come il maestro durante la sfida organizzata dal liceo Von Humbold.

Il volto di Gerog parla ed esige una risposta.

Ma ancora una volta Dietmar sente di essere chiamato a rispondere senza sapere cosa dire. Muove meccanicamente il pedone secondo uno schema piano.

 

Anche il suo muovere in modo naturale i pezzi, senza rispondere, senza rendere esplicita la domanda del volto di Georg… anche quella o forse proprio quella è la sua riposta.

Dalla finestra si vedono delle luci. Quale finestra? Dietmar non lo chiede. Non si domanda se ha alzato lo sguardo dalla scacchiera o se invece sono gli occhi che di fronte alla carta e alle righe del locale di Münchner Freiheit hanno seguito un riflesso sulla finestra.

Scrive e pensa a scrivere. È quasi tentato di essere pubblico ma non compreso. Vuole ancora che dal computer arrivino lettere di incoraggiamento. Si compiace di sapere che Sara legge questo racconto ma in cuor suo vorrebbe non esser compreso e neppure compatito.

Perché se compreso, pensa Dietmar, l’individuo trema. Cerca di nuovo la libertà. Fugge proprio quando la fiducia incondizionata nella ragione, ovvero nella comprensione, ha nominato tutto. Quando tutto ha un nome però, non abbiamo ancora capito il mistero.

E quel mistero pare a Dietmar sfuggire le parole.

Ma allora perché scrivo? Se non raggiungo una qualche verità?

Eppure, pensa, l’inutilità di questo racconto per non pulire il bagno, la sua effimera pretesa, lo alimenta come cera di una piccola fiamma.

Il fuoco della ragione brucia maestosa e illumina lontano. Anche la fiamma di una candela illumina ma di verità fioca.

E questa andava cercando Dietmar dietro il volto di Georg.

 

Poi successe di nuovo. Succedeva qualche volta a Dietmar di temere la morte. Temeva che tutto finisse d’un tratto proprio quando la sua vita gli sembrava una domanda sospesa. Sentiva il desiderio di piangere per porre fine a quel timore. Non capitava spesso ma quando capitava Dietmar tirava fuori la copia di una lettera trascritta di sua mano.

Carissmo Tita,

questa lettera non sarà lunghissima e perdona se non ti lascio che delle parole, ma capirai col tempo come la natura sia stata severa con te più che con me.

Proprio oggi ho avuto gli esiti degli esami e la malattia di cui dubitavo sino ad ora non lascia più spazio alla speranza. Dicono i medici che sarà una fine rapida e così mi accingo a scriverti subito per il poco tempo che mi rimane.

Un brivido trapassa la mia schiena e ho i piedi freddi.

Davvero non credevo di aver così poco tempo per scriverti e non voglio certo con queste righe compensare quel che non sarò.

Tuttavia quando ho saputo la notizia del mio stato ho capito che la natura dona e cancella senza che possiamo comprendere a quali regole risponda.

A ben guardare bastava leggere le poche righe rimaste dei frammenti greci per capire quanto di importante la filosofia conserva. L’eterna lotta fra forze distruttrici e forze creatrici, la contesa fra Amore e Odio, il coraggio di fronte alla morte, l’amicizia.

Bastava fare proprie quelle poche parole.

Io provo una grande gioia per quel che è stato, per la mia arte per cui ho vissuto e di cui ho vissuto.

Oh Tita, vorrei dirti che sono davvero felice.

Ripenso alla fortuna di aver trovato la casa dove ti trovi e di aver allestito il mio atelier. Ho dipinto immersa in uno stato di ebbrezza e poco dicono le mie opere delle acrobazie che facevo con la mente.

Io ora però ti lascio e non torno più.

Non torno proprio più perché torno nel ciclo della natura.

 

Ma se tu un giorno, Tita caro, volessi cercarmi in qualche modo…se un giorno mai sentissi di non saper colmare un qualche dolore, o se invece dovesse essere una gioia a farti ripensare a me, ebbene allora cercami fra i pennelli sparsi e i tubetti dei colori del mio studio. Là in fondo dove il letto è da rifare. Prova a scorgere nella riga blu o in un qualche altro colore i tratti della mia debolezza, perché la mia arte è stata una debolezza. Siamo solo per poco a questo mondo e io per molto meno. Non disperare Tita, non disperare. Lasciati incantare dalle forme e dal „Sulle note di B.“ che ho appeso in cucina. Cercami nel sogno che il contrasto di quel quadro nasconde. E ti parrò nascosta anch’io.

E se poi dovesse essere davvero insopportabile la mia assenza sappi che d’estate e anche in autunno (anzi settembre e ottobre erano mesi deliziosi) lavoravo in giardino. Avevo di fronte a me il prato, questo stesso prato e i cinque faggi di fronte al giardino, prima che cominci il bosco.

Sono gli stessi faggi che guarderai tu, senza fretta e senza ragione come li ho osservati io. E non impoverire, se puoi, con delle preghiere quella vista, perché credo ne avrai maggior beneficio.

 

Se ti sarà possibile cercarai di non abitare i sogni altrui con il tuo pensiero, diffida di chi promette un altro regno: riporrai il tuo sguardo come meglio crederai e dove vorrai; e questa sarà la tua arte.

Non che voglia consigliarti ancora qualcosa, ma se verrai come credo in possesso di un’arte, quale che sia, capirai quale distanza tenere dalle cose e ti avvicinerai ad esse senza rivendicazioni, non ti serviranno grandi acrobazie per amare il mondo.

Che ti rimanga cara la tranquillità dei faggi, la stessa che ho io in questo momento.

È sera qui in giardino e non vedo il bosco. Non vedo ma è un’assenza breve, segno che qualcosa c’è stato. Presto sarà buio. Da qualche parte però c’è luce.

 

Igor non è tornato dal bagno. Diemar non nasconde neanche tutto quel che ha scritto e si dirige verso i bagni, sale le scale verso il piano superiore e imbocca il corridoio in fondo a sinistra. Ci sono diverse porte sia a destra che a sinistra. Poco prima del bagno c’è un distributore di sigarette. Dietmar entra in bagno ma è vuoto. Ora non ha proprio più quel timore che aveva prima. Vedendosi allo specchio si accorge che ha gli occhi rossi. Si riscaqua la faccia e mentre si asciuga sente aprirsi una delle porte a lui di fronte, alla sinistra del corridoio.

È Igor che dal corridoio è ritornato nel locale.

La porta è socchiusa e tornando anche Dietmar al suo tavolino butta lo sguardo nella parte sinistra del corridoio e intravede nel buio una sedia di paglia.

Si ferma e esitando spinge con due dita la porta. È una stanza abitata. Oltre la sedia di paglia c’è un tavolo e un letto. Dei libri e una luce soffusa al tavolo. Ci sono posaceneri e vestiti sparsi. Dietmar non si capacita che qualcuno possa abitare nel corridoio del locale.

Igor vive qui? Che ora è?

Nel locale sono andate via alcune persone ma non tutte. Si fuma e si beve mentre la musica protegge dal buio.

 

Dietmar raccoglie i fogli e la biro. Beve un sorso di birra e fuma un’altra sigaretta. L’ultima pensa, e poi andrò altrove.

In verità sto bene, sono felice, tutto sembra aver acquistato un senso.

Dietmar saluta Igor, raccoglie i suoi fogli e si avvia a pagare.

Quant’è? Non importa cosa costano le birre, il vino e tutto il resto.”

Paga contento ed esce.

È notte fonda ma qualche macchina, per la verità non poche, attraversano la piazza di Münchner Freiheit.

Cammina a piedi lungo la Leopoldstrasse.

Questi edifici, il fasto e il buio, ma sono proprio io? E sono qui davvero?

Qualcosa resterà di questa notte e di questi quattro giorni in cui ho cominciato a scrivere per non pulire il bagno.

Dietmar non ha freddo e neppure paura, cammina a passo spedito e ogni angolo, ogni riflesso di luci, gli pare nuovo. Lui che a Monaco c’è nato e che ha viaggiato poco.

L’unico vero viaggio è stato quello a Parigi –pensa– e dopo quello tutto ha perso senso per molto tempo, sino a che ho deciso di scrivere.

 

Paula è affacciata alla finestra di casa sua, è notte anche per lei e il bambino dorme. Dietmar era ritornato così spesso a pensarla e credeva in quest’istante di vederla in camicia da notte alla finestra. Non era né una moglie né un’amica. Era il ricordo di una gita di molti anni prima che aveva rappresentato per lui l’inizio della fine. A Paula non tornavano in mente spesso gli anni del Liceo ma adesso era alla finestra e quasi per caso senza un motivo o forse perché guardava i riflessi del lampione fuori dalla finestra gli venne in mente una via di Parigi quando al suo fianco c’era proprio lui, Dietmar.

E dove sarà ora?

Che mai avrà fatto in tutti questi anni?

Non può essere sposato! Non credo proprio che si sia sposato. Era dolce e malinconico. Se la prese con se stessa per non aver mai più cercato il suo primo amore e si disse che era del tutto naturale aver dimenticato lui come molta altra gente.

Tuttavia le prese un desiderio sfrenato di avere sue notizie, chiuse la finestra e andò nello studio. Accese il computer e cominciò a cercare con Google. Digita nome e cognome ma non compare niente. Il nome di suo padre e la città di Monaco: ancora niente.

Dietmar intanto è arrivato alla stazione del tram ed è contento che fra ventisette minuti passi un tram notturno. Si accende una sigaretta chiuso nel suo cappotto.

Paula allora cerca nella guida telefonica online e trova un numero di telefono. Sono le tre, non è proprio il caso di telefonare ma il desiderio di ritrovare Dietmar si fa via via sempre più intenso. Prova con Facebook. Niente neppure su Facebook.

Possibile che non ci siano notizie di Dietmar?

Sotto il numero di telefono c’è l’indirizzo. Andare a casa sua proprio ora? Ma che dico, è un’idiozia.

Paula accende una sigaretta anche lei e sente il respiro di suo figlio.

Non resta che andare a dormire dopo la sigaretta.

Dietmar fuma tranquillo e sembra deciso a tornare a casa.

Il tram non tarda ad arrivare, lo vedo in lontananza. È pieno di ragazzi e ragazze che tornano dalle discoteca o cambiano semplicemente discoteca.

Il chiasso e le birre bevute a canna non disturbano Dietmar che non ha niente da fare, non ha fretta e medita già di accendere il computer a casa.

 

Sarebbe bello scrivere a Paula, mandarle il racconto che non è ancora finito. Ecco dunque, finirò il racconto e glielo invierò per posta. O lo porterò con le mie stesse mani. Troverò una scusa per non andare lunedì e martedì al lavoro. Un’influenza, infatti non mi sento bene. Riprenderò a scrivere senza sosta sino a concludere questo almeno della mia vita.

E mentre pensava attorniato dal rumore scorrevano gli edifici della Bayerstrasse. A tratti Dietmar li osservava, notava le finestre e i cornicioni. A tratti invece tornava a provare l’ebbrezza di finire il racconto per poterlo regalare.

Non gli era chiaro come già potesse leggerlo Sara nella metropolitana, come già fosse entrato nell’etere ma ogni volta che scriveva al computer dimenticava di chiedere allo sconosciuto che dialogava con lui qualche informazione.

Paula è a letto ormai e respira profondamente nel sonno.

A Dietmar pare di vederla nel volto di una ragazza non più giovane seduta tre sedili davanti a lui. Sembra davvero lei. Quasi non si accorge di essere arrivato davanti a casa e passano pochi istanti e tutto è tornato tranquillo e silenzioso.

 

Adesso però torna l’impazienza di aprire il portone, la chiave già pronta. Le scale dei due piani e il portoncino di casa. In fretta, pensa Dietmar, accendendo il computer e la macchina del caffè.

È davvero tardi sembra ricordarsi ma invero è mattino presto e la gioia di poter finire il racconto per non pulire il bagno e regalarlo a Paula sembra immensa.

Appena acceso il compter giunge il messaggio.

Dietmar è molto tardi, so di tediarti dicendoti tutto questo, ma è meglio se vai a dormire!”

Sono felice. Sto molto bene. Nella metropolitana ho creduto di rivedere Paula. Sfoglio le pagine e rivedo tutto quel che ho vissuto in questi giorni. Niente ha senso eppure tutto sembra averlo.”

La radio è accesa.

Questa musica allieta, sono seduto e penso alla vita mia. Quanti pensieri questa notte. Ho rispettato il proposito di coltivare un’arte. Mi piace restar qui davanti al computer aspettando qualcosa e non so cosa.

È vero credo di essermi leggermente ammalato e presto andrò a dormire ma il buio qui fuori protegge i miei pensieri.

E se non ho ancora pulito il bagno che importa?”

Bravo Deitmar. Non voglio più dire nulla, non servirebbe. Quando avrai finito di scrivere tornerò a visitare il tuo computer per leggere le tue righe.”

 

Dietmar senza spegnere il computer e la radio si stende sopra il letto, vestito e senza preoccupazioni. Solo ogni tanto tossisce per aver preso freddo. Si addormenta e sogna. La musica della radio insegue i suoi pensieri notturni e se al principio era un sonno agitato presto dorme profondamente e non si accorge che sono passate diverse ore.

È domenica sera quando si sveglia e sente ora di non star bene. Dietmar si dirige in bagno, apre l’acqua della vasca, si sveste e si misura la febbre.

Dopo aver constatato di avere la febbre entra nella vasca e torna a sognare ad occhi aperti. Passano diversi minuti e dopo essersi asciugato e messo il pigiama, senza neppure aver mangiato altro che una scatoletta di tonno, si mette definitivamente a letto.

 

Comincia lunedì.

 

L’idea di non svegliarsi che a tarda mattinata con una terribile voglia di fare pipì (che generava incubi spiacevoli) indusse Dietmar a mettere la sveglia. Ma non era l’unico motivo. Doveva telefonare al Dott. Scholz per avvertirlo della sua malattia. E doveva andare dal suo medico a farsi visitare.

Suonata la sveglia dunque si trascina verso il telefono e rischiarata la voce ma non troppo in poche parole comunica alla segretaria che oggi e forse anche per qualche altro giorno non sarà in ufficio perché ammalato.

Poi si veste piuttosto malconcio ma sempre di buon umore e si avvia verso la metropolitana.

Nell’U-Bahn cerca in ogni scompartimento il volto di Paula o almeno i suoi capelli neri.

Paula è al lavoro nella casa editrice ma non è sopito il desiderio di sapere dove vive Dietmar e cosa fa, sotto quale pensieri cammini la sua vita.

Anche in ufficio ha provato a fare qualche altra ricerca in internet ma senza risultati.

Potrebbe rivogersi alla segreteria e con una scusa commissionare una ricerca alle due segretarie. Questa soluzione le sembra imbarazzante ma sente di non avere scelta.

Doris è alla scrivania e non si aspetta certo una confidenza da parte di Paula che le si avvicina invece sino a rendere la cosa sospetta e le chiede sottovoce:

C’è il modo di recuperare il nome, cognome e l’indirizzo di un compagno di Liceo?”

Compagno di chi?”

Paula non esita a dichiarare il suo intento.

– „Vorrei rintracciare questo compagno di studi –e porge un foglietto con il nome di Dietmar F.– abbiamo frequentato lo stesso Liceo di Monaco, il Von Humboldt di Balanstrasse. Telefoni alla scuola e si faccia dare i dati che mi interessano.”

Doris è perplessa e domanda:

Se devo motivare la mia richiesta cosa posso addurre come scusa?

Dica che la casa editrice ha ricevuto un manoscritto firmato Dietmar F. e lo vuole pubblicare ma putroppo non sono leggibili indirizzo e codice postale.

Da una ricerca in internet abbiamo rintracciato la scuola che Dietmar ha probabilmente frequentato e si tratta del Liceo Von Humboldt di Balanstrasse.”

 

Mentre seduto nella sala d’aspetto piuttosto piena Dietmar scriveva sui fogli di carta e pareva gustare l’andamento del racconto. Paula lo stava cercando dopo tanto tempo. Paula nonostante tutto pensava a lui.

Ecco che arriva il turno di Dietamr. Dapprima gli vengono fatte delle lastre.

 

Il medico è alto ed elegante, quasi un amico, mi sembra di conoscerlo da molti anni. Non si stupisce nel sentire di me e dei miei problemi. Mi guarda dopo tutto quel che gli ho raccontato. Mi guarda e mi dice:

– „si fumi una sigaretta, si beva un bicchiere di vino, goda quest’esperienza magnifica, godere, impari a godere la vita. Rifletta sui suoi casi, sui casi della vita. Tutto è strano, Dietmar, tutto è vano, tutto è vero. Ho visto che lei scrive è certamente qualcosa di interessante. Ebbene, scriva ancora. E per favore getti via queste lastre, non le servono a nulla. Le prescriverò queste pillole che prenderà subito e poi una volta al giorno.

Dietmar prende le pillole davanti al medico e uscendo dalla stanza del medico sente una musica nel corridoio. Ha un gran sonno.

 

Una canzone gli torna in mente. Un inno alla vita e deve venire dal corridoio. Appoggiato su una sedia si guarda intorno e vorrebbe ringraziare anch’egli. La canzone è in spagnolo.

Una canzone cantata con molta passione. Poi pensa un poco.

„Dove sono?”

„Queste pareti bianche e questo strano odore!

Sembra essere passato davvero tanto tempo.”

Diemtar si è svegliato sdraiato su un letto.

Di nuovo odore di ospedale –pensa– devono essere state le pillole. Riesce a leggere nell’orologlio Jaquet Droz che è mercoledì ma non intuisce l’ora, le lancette sono ferme.

 

Ora pare a Dietmar di sentire due medici confrontarsi fra loro, proprio nel vano osservazione.

-“Il paziente ha una spiccata tendenza a fantasticare e si forza di tenere insieme i brandelli della sua vita. Questo sforzo è tipico del disturbo OGS a ciclo II e il paziente Dietmar non trova un senso alla sua esistenza se non in una affannoso e confuso tentativo di associare tutto. Ne abbiamo documentazione da diversi fogli e lettere scritte al computer.

È assolutamente neccessario un lungo riposo e una psicoterapia che aiuti il paziente a ricostruirsi un identità e una personalità omogenee.

Mi pare il caso che il ricovero debba durare altre 28 settimane e che al ricovero debbano seguire altre 20 settimane di clinica diurna.”

– „Io consiglierei due milligrammi di Pacotermin combinato con Asiolin: trenta goccie la sera.

Del Tavor per dormire perché ho notato che il paziente non dorme regolarmente. Poi rifaremo una diagnosi.”

 

Ora i due medici sono andati via.

Dietmar vorrebbe parlare ma la stanza è chiusa.

È mercoledì e deve pulire il bagno. Vorrebbe far presente che deve pulire il bagno ma non gli escono le parole. Non è il caso di urlare, non sentirebbero.

Ha a disposizione un computer e ormai non riesce più a trattenersi dal desiderio di scrivere, di andare avanti con il suo racconto e di sapere chi comunica con lui, chi apre finestre sul suo computer.

Riprende a scrivere.

„Il racconto è quasi alla fine, è passata una settimana e mi trovo ora in una clinica per un caso della vita che è ignoto prima di tutto a me stesso. Vedo dei faggi di fronte a me e nella stanza ci sono due piante e questo mi fa ben sperare. Vedo anche che ci sono altri pazienti che camminano avanti e indietro nei corridoi e dividono con me questo posto. Lo vedo dalla finestra che affaccia sul corridoio della clinica dove credo rimarrò qualche mese ma forse molto di più. Voglio chiudere il racconto per non pulire il bagno menzionando uno sconosciuto amico che ha fornito diversi dati per il racconto stesso ma non ne conosco il nome.”

Si apre una finestra.

– „Dietmar sono io. Vorresti sapere chi sono?”

– „Sì, sarebbe un grande sollievo per me, soprattutto ora che mi trovo in circostanze alquanto spiacevoli.”

– „Io faccio parte della Rete dei Fabulatori, creo continuamente personaggi e storie e mi introduco nei computer di sconosciuti raccontando le mie invenzioni.

Io creo, ecco cosa faccio.”

– „Ma allora non è vero niente? Scrive smarrito Dietmar

– „Edmund non veste trasandato per piacere a sua zia?”

– „La casa editrice Faber non esiste?”

– „La zia Therese non è single, non porta a letto dei trentenni innamorati del suo corpo e dei suoi vestiti?”

– „E Verena e Paolo non sono mai stati sull’Isar?

– „La lettera? L’ho solo immaginata? L’ho mai ricevuta?

– „Allora non è vero niente?” Ripete sconsolato Dietmar.

– „Calmati Dietmar, così non va bene.”

– „Qualcuno dice che il mondo è solo uno dei mondi possibili. E gli altri? Dove sono gli altri mondi possibili se non li costruiamo in qualche modo? E sono forse meno veri? Il tuo sogno è forse meno vero dei calcoli che fai ogni giorno nello studio del dottor Scholz?

Anche tu hai creato un mondo possibile, non ti pare?

Un mondo solo non basta per tutti.

Questo pensiamo noi Fabulatori.”

 

– „È forse il mio medico Lei? Scrive insospettito Dietmar

– „Risponda La prego!”

– „E io sono un contabile?”

– „Perché non posso uscire di qui?”

– „Perché mi avete chiuso in questa stanza con il computer?”

– „E da quanto tempo sono qui?”

– „E se scrivo potrò uscire?”

– „Voglio tornare nella metropolitana, voglio vedere gente seduta di fronte a me!”

– „Dietmar Lei ha un disturbo della personalità, le sue percezioni sono dissociate, Lei corre con la fantasia, Lei ha bisogno di curare l’OGS a ciclo II di cui è affetto, Lei… ”

– „Perché usa il Lei adesso?”

– ”È forse il mio medico Lei?”

– „Risponda! Le ho chiesto se Lei è il mio medico?”

 

La finestra non si apre più e Dietmar sprofonda in una confusione totale, è quasi disperato; si discosta dal computer e guarda la scrivania. Non è né tardi né presto.

Nel cassetto ci sono dei fogli bianchi belli ordinati.

Raccoglie i fogli del racconto scritto sino ad ora. Prende un pacco e tira fuori un foglio intonso. Sente il tipico odore della carta misto a quello del disinfettante della stanza, odore d’ospedale. Si avvicina alla biro nera che trova sempre nel cassetto e ricomincia a scrivere, ma questa volta sulla carta: „cara Paula, nella lunga degenza in preda al disturbo della personalità OGS e ormai sicuro di non poter più uscire da questa clinica avrei voluto tanto essere una persona qualunque qualificata come normale, scrive Dietmar, così tanto per raccontarmi ben sapendo cosa è vero e cosa no.

Sarei volentieri uscito per andare al lavoro, un lavoro qualsiasi, diciamo un contabile.

Una vita che i più definiscono monotona e molto noiosa. Dove non succede niente di eccezionale. Dove si incontra molta gente anche se pare di non conoscere nessuno. Dove però piano piano tutto diventa eccezionale. Dove ogni giorno è uguale all’altro, che poi non è vero, dove bisogna pulire il bagno e adoperarsi per trovare un qualche senso alla routine e si finisce magari a scrivere perché ci si affeziona ai faggi e ai volti di sconosciuti nella metropolitana, dove oggi, per esempio, è mercoledì.”

 

 

                                                    Haar, 22 Dicembre 2009